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Guardare ad Oriente

(di Giancarlo Polenghi)

L’Europa sta attraversando un momento difficile. Di fronte alle sfide dei nostri tempi manca una visione comune, un senso di missione per il bene di tutti. Lo vediamo con la Brexit e le divisioni nel Regno Unito, nell’ondata di proteste dei gilet gialli in Francia, nelle tensioni in Spagna nel territorio catalano, e in Italia, dove il dibattito politico è ormai da mesi di scontro totale tra le parti. C’è disunione tra le nazioni di antica tradizione cristiana che, ripiegate su se stesse, sono più preoccupate del benessere economico che di qualunque altra cosa. Questo malessere è legato a una ragione senza intelligenza, e a un non voler pensare e agire guardando all’insieme. La divisione tocca anche la cultura e la Chiesa. Probabilmente è sempre stato così, eppure i sintomi della decomposizione sono certamente qualcosa che un cristiano deve guardare con sospetto, e a cui rispondere con l’esempio e la parola.

Individualismo, società liquida, frammentazione, conflitto: sono tutti aspetti del nostro vivere attuale che richiedono una reazione, o almeno una nuova visione che ci permetta di rimettere insieme i pezzi. Una possibile risposta a questi problemi la troviamo in un piccolo e prezioso volume, ristampato di recente, dal titolo “Una conoscenza integrale, la via del simbolo” di Tomas Spidlik e Marko Ivan Rupnik (Lipa 2010, 2018).

Gli autori dedicano la loro riflessione al modo con cui conosciamo che tanto peso ha sulla nostra percezione e interazione con la realtà. La loro raccomandazione è di utilizzare un approccio integrale che oltre all’esperienza e alla ragione includa anche la conoscenza simbolica, spirituale e mistica.  La lezione viene dall’Oriente cristiano e fa tesoro oltre che dei Padri della Chiesa del primo millennio anche dei pensatori più vicini a noi che hanno proseguito sulla stessa strada (Dostoevskij, Berdjaev, Sestov, Losskij, Florenskij, Ivanov, Solov’ev). Il testo critica la tradizione occidentale che mettendo la ragione davanti a tutto finisce per non cogliere appieno la forza trasformatrice del messaggio cristiano.

Spidlik sostiene che la vita assomiglia a un bel paesaggio in una natura primaverile che può essere goduto solo da colui che cerca di aprire tutti i sensi contemporaneamente. Noi pertanto conosciamo ciò che viviamo. E nel processo di conoscenza dobbiamo necessariamente usare sia la volontà che l’intelligenza. L’autore arriva a dire che la carità è la porta della conoscenza e che quindi l’amore personale è un principio gnoseologico. Per questo possiamo dire che la verità non è cosa, ma persona.

La conoscenza effettiva della verità è nell’amore, non è concepibile che nell’amore e si manifesta attraverso l’amore. Un modo di apprendere non solo intellettuale ma anche affettivo, corporeo, poetico.

Tutto questo ha un senso se lo si pensa in modo integrato alla conoscenza razionale, ossia ad un sapere rigoroso che misura e che quantifica, che analizza e divide, come siamo abituati in Occidente. Quando interviene l’amore nella conoscenza la differenza tra soggetto ed oggetto tende a sfumare e questo può far perdere un certo tipo di presa, ma ci introduce in un mondo più ricco di significato. D’altronde le persone, Dio stesso, ma anche il creato, visto con la sola ragione diventano qualcosa da usare, qualcosa che può anche darci piacere, ma che alla fine non riempie il cuore.

Il pensiero occidentale è dinamico e trasformativo, ma rischia di distruggere. Quello orientale è includente e simbolico, ma rischia di portare all’immobilismo. È chiaro che si tratta di integrare, non di contrapporre. E come direbbe Romano Guardini, nell’opposizione polare si può guadagnare e promuovere la vita.

Il verbo greco symbàllein significa mettere insieme, riunire. Per questo gli orientali parlano di via simbolica. Una via che ci introduce, attraverso Cristo, alla relazione delle tre Persone divine. In termini di conoscenza sul mistero della Trinità si gioca molto più di quanto si possa immaginare. In Occidente, facendo tesoro di alcune categorie provenienti dalla filosofia greca, si è vista l’unità della Trinità a partire dalla stessa natura (divina) delle tre persone. I padri greci viceversa vedevano l’unità a partire dalla relazione, ossia dal loro rapporto di comunione, pur nella distinzione di ciascuna delle persone. Sarebbe come dire che in Occidente è la natura divina che rende Uno il Padre, il Figlio e lo Spirito, invece in oriente è l’amore di ciascuno per l’altro e il fatto che il Padre sia totalmente Padre lo rende ciònonostante unito totalmente al Figlio, la qualcosa avviene anche al Figlio e allo Spirito.

La sostanza (substantia) di un ente, è ciò che stando sotto, lo sostiene. Nella tradizione tomista è l’essere (Dio come l’essenza stessa dell’Essere), in quella orientale c’è anche la relazione, che è una sorta un co-principio assieme all’essere, o, addirittura, di principio primo.

Mentre il pensiero occidentale ha visto l’uomo come unione tra corpo e anima e ciò che lo caratterizza sarebbe la razionalità, pensiero (pensiamo alla celebre definizione di Boezio di persona come sostanza individuale di natura razionale), i Padri orientali hanno maggiormente sottolineato l’unione di corpo, anima e Spirito (una trinità secondo Sant’Ireneo di Lione), in cui quest’ultimo è precisamente lo Spirito Santo. Ciò che ci rende simili a Dio, creati a sua immagine e somiglianza, non sarebbe tanto l’anima, ma la capacità relazionale, l’amore, la comunione come principio vitale. La relazione allora verrebbe prima dell’Essere, o se si preferisce, che lo genererebbe in un unico atto di essere-relazione. Per questo la persona umana sarebbe essenzialmente relazione con gli altri, dicono gli orientali. Isolati siamo all’inferno, condannati all’insignificanza. La capacità di essere in comunione sarebbe tutto nella vita. Una comunione reale che accetta e trascende le differenze.

Affinché la relazione sia autentica però, deve essere libera. Perché non è possibile amare se non liberamente. Ma pure, si è liberi solo amando. La salvezza quindi è un tutt’uno con l’amore e con la libertà. Per questa ragione è tanto importante il parlar franco con Dio (parrhesia) e con le altre persone, uscendo dall’anonimato e dagli schemi prefigurati. La libertà senza l’amore, come l’amore senza la libertà, conducono alla morte.

Il potere vero allora non è altro che capacità di amare che trasfigura il mondo.

Ribellandosi alla legge – afferma Spidlik – si dice “io non sono schiavo”, ma non si dice ancora che siamo figli. Per scoprire che siamo persone dobbiamo aprirci alla relazione, e conseguentemente sapremo non partire dalla legge che mi ordina di amare, ma andare verso l’amore, e questo può trovare la sua espressione anche nella legge e nella struttura. La legge, come afferma San Paolo, non è fatta per sottometterci, ma per essere superata.

Ovviamente, affermano gli autori, l’uso della ragione non è un male. Il male è privarla dell’unione con la vita, con l’arte, con la poesia, con la conoscenza simbolica.

Mettere la relazione al centro significa comprendere il messaggio cristiano in modo nuovo e dinamico. La vita spirituale non è altro che la vita in noi dello Spirito, una vita relazionale. L’imitazione di Cristo diventa allora un modo per unire, come lui ha fatto, la natura umana e quella divina. Il ruolo della grazia assume un’importanza enorme, a partire dal battesimo, per giungere alla Comunione, che – come dice Cabasilas – ci rende consanguinei di Cristo, molto più che figli adottivi, carne della stessa carna e ossa delle stessa ossa, sia secondo le modalità delle membra di Cristo che in virtù della filiazione divina. Se tutto ciò ha un impatto forte nel rapporto con Dio è forse ancora più radicale nel rapporto con gli altri. I cristiani sono allora principalmente e specilamente coloro che sanno amarsi vicendevolmente come nessuno sarebbe mai in grado di fare, e questa capacità di vivere la carità, ut unum sint, diventa ciò che attrae e che è in grado di stimolare nuove e successive conversioni.

Se riconosciamo che esistono tre tipi di conoscenza: quella sensibile, quella razionale, e quella spirituale-mistica (ossia simbolica) dobbiamo riconoscere che tra di esse spesso non c’è comunicazione. Invece è necessario integrare. Tanto più quando abbiamo a che fare con Dio e con gli altri. Conoscere Dio con la sola ragione è miope e poco produttivo in termini vitali. Invece si può affermare, come ci insegna da sempre la Chiesa, che se sei teologo preghi veramente, e se preghi veramente sei teologo.

La conoscenza simbolica ci porta a vedere oltre il simbolo e quindi a trovare l’assoluto là dove c’è il contingente. Chi non riesce a vedere al di là, diventa idolatra perché non riesce a scorgere Dio a partire dalla magnificenza del mondo, dalla bellezza delle creature.

La regola d’oro della teologia simbolica è dunque superare il simbolo, saper alzare lo sguardo, per vedere l’insieme, e quindi, per imparare, sospinti dalla grazia, ad amare.

Tomàs Spidlik, Marko I. Rupnik,

Una conoscenza integrale, la via del simbolo,

Lipa 2010