Articoli

Il disagio del tempo moderno

di Giancarlo Polenghi

 

Quanti sono i libri che una volta finiti si sente il forte desiderio di farli conoscere ad altri? I libri che per la loro forza e chiarezza si pensa che rimarranno a lungo nella memoria? Per esperienza personale – totalmente soggettiva – posso dire che sono meno di uno su venti-trenta (quindi meno del 3-4%). A me capita di leggere circa un libro a settimana, a volte due, (quindi un centinaio di libri in due anni) e lo faccio seguendo filoni precisi, ossia con una strategia che, dal punto di vista culturale, professionale o di svago, tende a minimizzare letture che possa poi giudicare “inutili”. Credo che questo è ciò che faccia qualunque lettore.

Bene, dopo aver fatto questa premessa, con una certa soddisfazione, mi appresto a presentarvi il libro che più mi ha convinto nell’ultimo biennio di letture. Si tratta di un saggio di sociologia che, con argomenti convincenti, spiega il disagio del tempo in cui viviamo. Un disagio, che prende la forma dell’oppressione, e che, come una mano invisibile – e perciò ancora più temibile –, rende la vita affannata, di corsa, priva di tempi e spazi per ciò che davvero ci interessa.

L’autore è il sociologo tedesco, 55enne, Hartmut Rosa, il titolo del libro è: “Accelerazione e alienazione, per una teoria critica del tempo nella tarda modernità, Einaudi 2015”.

La sua intuizione è tutta contenuta nel titolo: l’accelerazione della vita moderna (lui la chiama tarda modernità) è la causa del malessere personale e sociale dell’Occidente, tecnicamente denominata alienazione.

Secondo l’autore, l’accelerazione tecnologica, che è sotto gli occhi di tutti, provoca e consolida anche un’accelerazione dei mutamenti sociali e dei ritmi di vita. La ragione per cui tutti tendono a correre (o pensano di star correndo), per non restare indietro, è legata al fatto che – senza che nessuno ce lo imponga – si avverte il dovere di competere e di mantenere alte le prestazioni. Rosa ritiene che la competizione sia il motore sociale dell’accelerazione, così come la promessa dell’eternità lo sia per la cultura. Perché una vita accelerata sarebbe fonte di alienazione? Perché essa disallinea i ritmi tra noi e le cose (e il mondo – ossia la realtà -), tra noi e gli altri e tra noi con noi stessi. Ne va non solo del rapporto tra produzione, acquisto e consumo (si produce più di quanto si possa consumare, creando sprechi, scarti e “falsi bisogni”), ma perfino dell’identità personale, che si ritrova sempre più costretta all’interno del riconoscimento sociale, a scapito dell’adesione agli ideali e valori scelti. L’accelerazione allora diventa una nuova forma di totalitarismo che produce malattie da desincronizzazione, e che agisce nel più completo anonimato, sotto le mentite spoglie di una condizione inevitabile e pure scelta liberamente. Queste poche maldestre righe di presentazione hanno il solo obiettivo di invitare alla lettura, dal momento che l’analisi e l’argomentazione in sé è non solo molto più ricca e profonda, ma anche piena di sfumature e riflessioni godibili sia dagli amanti del genere sociologico che del grande pubblico non specialistico. By the way, il libro non contiene ricette o soluzioni. Solo alla fine si accenna alla religione e all’arte come possibili percorsi salutari. Come non essere d’accordo?

 

Hartmut Rosa

Accelerazione e alienazione

Per una teoria critica del tempo nella tarda modernità

Einaudi 2015 (anche in edizione ebook)

 

Una perla preziosissima

«Akathistos», l’inno mariano nato nella Chiesa bizantina del V sec.

vedi: Osservatore Romano, 10 luglio 2020

Akathistos: è la postura dell’orante, «non seduto», a dare il titolo a questo inno mariano nato nella Chiesa bizantina del v sec.e dunque appartenente all’antica Chiesa indivisa. Si cantava stando in piedi, così come si ascolta il Vang..

Di autore anonimo, questo canto è una perla preziosissima dell’intera cristianità, di là dalle divisioni ecclesiali, una sintesi mirabile del mistero della salvezza nella stretta correlaz.tra incarnaz. e redenz.: canta infatti nella prima parte gli eventi dell’incarnaz. e del Natale, cui seguono nella seconda le intuizioni teologiche dei misteri della salvezza nella fede professata dalla Chiesa conformemente ai concili di Nicea, Efeso, Calcedonia.

Ed è  un inno di Lode al Signore al tempo stesso in cui si canta alla Madre; un canto alla Santissima Trinità per mezzo di, e insieme con Maria: il canto alla Madre in funzione della lode a Lui.

Nella liturgia bizantina si intona il 5° sab. di Quaresima; nella Chiesa catt. Giovanni Paolo II che più volte l’ha voluto e presieduto ha concesso l’indulgenza per la sua recita al pari del santo Rosario.

Per quanto le migliori traduzioni non possano forse compensare l’esecuzione della metrica greca, la ritmicità nella ripetizione — con varianti — nella partecipazione di tutta l’assemblea innesca l’energia del canto corale e restituisce esperienzialmente il senso della bellezza che appartiene a tutta la tradizione filocalica della spiritualità orientale.

In solitudine, in particolare, la preghiera — meditativa — può condurre alla contemplazione.

Strutturato in due parti, la 1° liturgica e la 2° dogmatica, si compone di 24 stanze, di cui quelle di n° dispari, più estese, prevedono la partecipazione dei fedeli i quali, in risposta a una breve sequenza di narrazione biblica, variando a ogni verso l’invocazione, per 12 volte ripetono cantando la parola di saluto dell’Angelo, «Ave»: Ave, per Te la gioia risplende / Ave, per Te il dolore s’estingue / Ave, salvezza di Adamo caduto / Ave, riscatto del pianto di Eva…. Invariato per tutte le stanze dispari resta il 13° saluto, a mo’ di antifona formulare di explicit: Ave, Vergine e Sposa!

Le stanze pari sono tutte più brevi: di soli otto versi, l’ultimo dei quali risuona di una sola parola di giubilo, «Alleluia!» al Signore Dio nostro Salvatore.

Maria è il grembo senza macchia preparato nei secoli per accogliere il Figlio di Dio, Figlio dell’uomo: «Non avessi tu il candore, come potrebbe / accadere a te ciò che rischiara ora la notte?», canta a Lei Rilke — intorno alla Nascita di Cristo nella Vita di Maria — figurandosi il Bimbo come sole che sorge.

Maria è in Cristo la Madre dell’umanità redenta. Poiché madre — il suo sangue, sangue del Figlio; il palpito del grande cuore del piccolo, sul suo cuore di madre —, la supplica a Lei rivolta (Preservaci da ogni sventura, tutti! Dal castigo che incombe / Tu libera noi che gridiamo: Alleluia! ) si fa motivo di speranza nella candida bellezza di questo inno che verosimilmente è stato alla base delle formule litaniche, mirabile sintesi teologica del piano della salvezza dalle origini della creazione al suo compimento, del mistero pasquale ed ecclesiale.

Era tutto qui in terra / e di sé tutti i cieli / riempiva il Dio Verbo infinito: / non già uno scambio di luoghi, / ma un dolce abbassarsi di Dio / verso l’uomo / fu il nascer da Vergine, / Madre che tutti acclamiamo: / Ave, Tu sede di Dio l’Infinito / Ave, Tu porta di sacro mistero ()

Per salvare il creato / il Signore del mondo / volentieri discese quaggiù. / Qual Dio era nostro Pastore, / ma volle apparire tra noi / come Agnello: / con l’umano attraeva gli umani, / qual Dio l’acclamiamo: / Alleluia!

Splendida l’immagine dell’Agnello Pastore. Nella vita ordinaria il pastore cura il gregge ma poi, per vivere, egli deve sacrificare l’agnello.

Nella tradizione di Israele la legge prescriveva si immolasse, per celebrare la Pasqua, un agnello perfetto, maschio, senza macchia, giovane, nato nell’anno… Il Re Pastore, che ama le pecore al punto da andarle a cercare quando si smarriscono, una a una, chiamandole per nome, abolisce il sacrificio antico e offre se stesso.

Il pastore in sostituzione dell’agnello, per ciascuno dei suoi agnelli, o delle pecore. Ma di quante parole abbiamo bisogno per esprimere questo ineffabile nucleo di irradiante bellezza!

Non potrebbero essere le parole degli antichi inni a radunare nuovamente in preghiera i cristiani delle Chiese divise che faticano a riconciliarsi sul piano dogmatico ma che hanno in comune il Signore e la Madre e che trovano parole di invocazione comuni per l’umanità tutta nei momenti della festa e in quelli del dolore? Ai conviti di famiglia ogni padre desidera vedere riuniti i figli, a tavola, anche provenienti da strade lontane e da storie tutte diverse… Il padre aspetta, il suo amore chiama nel silenzio; la madre prepara e li raduna…

Rivolto a Maria, nella quale i due poli umano e divino convergono, nella stanza della Visitazione di questo inno il piccolo Giovanni in grembo a Elisabetta esprime così la sua esultanza: Ave, o tralcio di santo Germoglio; / Ave, o ramo di Frutto illibato. // Ave, coltivi il divino Cultore, /Ave dai vita all’Autor della vita. // Ave, Tu campo che frutti ricchissime grazie; / Ave, Tu mensa che porti pienezza di doni. // Ave, un pascolo ameno Tu fai germogliare; / Ave, un pronto rifugio prepari ai fedeli. // Ave, di suppliche incenso gradito; / Ave, perdono soave del mondo. // Ave, clemenza di Dio verso l’uomo; / Ave, fiducia dell’uomo con Dio, // Ave, Vergine e Sposa!

 

L’INNO AKATHISTOS


Akathistos
si chiama per antonomasia quest’inno liturgico del sec.V, che resta il modello di molte composizioni innografiche e litaniche, antiche e recenti.”:”a-kathistos” in greco significa “non-seduti”, perché la Chiesa ingiunge di cantarlo o recitarlo “stando in piedi”, come si ascolta il Vang., in segno di riverente ossequio alla Madre di Dio.

La struttura metrica e sillabica dell’Akathistos si ispira alla celeste Gerusalemme – cap. 21 dell’Apocalisse, da cui desume immagini e numeri: Maria è cantata come identificazione della Chiesa, quale “Sposa” senza sposo terreno, Sposa vergine dell’Agnello, in tutto il suo splendore e la sua perfezione.

L’inno consta di 24 stanze (in greco: oikoi), quante sono le lettere dell’alfabeto con le quali progressivamente ogni stanza comincia. Ma fu progettato in due parti distinte, su due piani congiunti e sovrapposti – quello della storia e quello della fede -, e con due prospettive intrecciate e complementari – una cristologica, l’altra ecclesiale -, nelle quali è calato e s’illumina il mistero della Madre di Dio. Le due parti dell’inno a loro volta sono suddivise ciascuna in due sez. di 6 stanze: tale suddivis. è presente in modo manifesto nell’attuale celebraz. liturgica. L’inno tuttavia procede in maniera binaria, in modo che ogni stanza dispari trova il suo complemento – metrico e concettuale – in quella pari che segue. Le stanze dispari si ampliano con 12 salutaz.mariane, raccolte attorno a un loro fulcro narrativo o dommatico, e terminano con l’efimnio o ritornello di chiusa: “Gioisci, sposa senza nozze!”. Le stanze pari invece, dopo l’enunciazione del tema quasi sempre a sfondo cristologico, terminano con l’acclamazione a Cristo: “Alleluia!”. Così l’inno si presenta cristologico insieme e mariano, subordinando la Madre al Figlio, la missione materna di Maria all’opera universale di salvezza dell’unico Salvatore.

La 1°prima parte dell’Akathistos (stanze 1-12) segue il ciclo del Natale, ispirato ai Vang. dell’Infanzia (Lc 1-2; Mt 1-2).
Essa propone e canta il mistero dell’incarnazione (stanze 1-4), l’effusione della grazia su Elisabetta e Giovanni (stanza 5),la rivelazione a Giuseppe (stanza 6), l’adorazione dei pastori(stanza 7), l’arrivo e l’adorazione dei magi (stanze 8-10), la fuga in Egitto (stanza 11), l’incontro con Simeone (stanza 12): eventi che superano il dato storico e diventano lettura simbolica della grazia che si effonde, della creatura che l’accoglie, dei pastori che annunciano il Vangelo, dei lontani che giungono alla fede, del popolo di Dio che uscendo dal fonte battesimale percorre il suo luminoso cammino verso la Terra promessa e giunge alla conoscenza profonda del Cristo.

La 2° parte (stanze 13-24) propone e canta ciò che la Chiesa al tempo di Efeso e di Calcedonia professava di Maria, nel mistero del Figlio Salvatore e della Chiesa dei salvati. Maria è la Nuova Eva, vergine di corpo e di spirito, che col Frutto del suo grembo riconduce i mortali al paradiso perduto (stanza 13); è la Madre di Dio, che diventando sede e trono dell’Infinito, apre le porte del cielo e vi introduce gli uomini (stanza 15); è la Vergine partoriente, che richiama la mente umana a chinarsi davanti al mistero di un parto divino e ad illuminarsi di fede (stanza 17); è la Sempre-vergine, inizio della verginità della Chiesa consacrata a Cristo, sua perenne custode e amorosa tutela (stanza 19); è la Madre dei Sacramenti pasquali, che purificano e divinizzano l’uomo e lo nutrono del Cibo celeste (stanza 21); è l’Arca Santa e il Tempio vivente di Dio, che precede e protegge il peregrinare della Chiesa e dei fedeli verso l’ultima Pasqua (stanza 23); è l’Avvocata di misericordia nell’ultimo giorno (stanza 24).

L’Akathistos è una composizione davvero ispirata. Conserva un valore immenso:
—  a motivo del suo respiro storico-salvifico, che abbraccia tutto il progetto di Dio coinvolgendo la creazione e le creature, dalle origini all’ultimo termine, in vista della loro pienezza in Cristo;
—  a motivo delle fonti, le più pure: la Parola di Dio dell’Antico e del Nuovo Testamento, sempre presente in modo esplicito o implicito; la dottrina definita dai Concili di Nicea (325), di Efeso (431) e di Calcedonia (451), dai quali direttamente dipende; le esposizioni dottrinali dei più grandi Padri orientali del IV e del V sec., dai quali desume concetti e lapidarie asserzioni;
—  a motivo di una sapiente metodologia mistagogica, con la quale — assumendo le immagini più eloquenti dalla creazione e dalle Scritture — eleva passo passo la mente e la porta alle soglie del mistero contemplato e celebrato: quel mistero del Verbo incarnato e salvatore che — come afferma il Vat. II — fa di Maria il luogo d’incontro e di riverbero dei massimi dati della fede (cf Lumen Gentium 65).

Circa l’Autore, la tradiz. trasmette anonimo l’inno Akathistos. La versione latina redatta dal Vesc. Cristoforo di Venezia intorno all’anno 800, che tanto influsso esercitò sulla pietà del medioevo occidentale, porta il nome di Germano di Costantinopoli ( 733). Oggi però la critica scientifica propende ad attribuirne la composizione ad uno dei Padri di Calcedonia: in tal modo, questo testo venerando sarebbe il frutto maturo della tradizione più antica della Chiesa ancora indivisa delle origini, degno di essere assunto e cantato da tutte le Chiese e comunità ecclesiali.

INNO

PARTE NARRATIVA

1. Il più eccelso degli Angeli fu mandato dal Cielo
per dir “Ave” alla Madre di Dio.
Al suo incorporeo saluto
vedendoti in Lei fatto uomo,
Signore,
in estasi stette,
acclamando la Madre così:

Ave, per Te la gioia risplende;
Ave, per Te il dolore s’estingue.
Ave, salvezza di Adamo caduto;
Ave, riscatto del pianto di Eva.
Ave, Tu vetta sublime a umano intelletto;
Ave, Tu abisso profondo agli occhi degli Angeli.
Ave, in Te fu elevato il trono del Re;
Ave, Tu porti Colui che il tutto sostiene.
Ave, o stella che il Sole precorri;
Ave, o grembo del Dio che s’incarna.
Ave, per Te si rinnova il creato;
Ave, per Te il Creatore è bambino.
Ave, Sposa non sposata!

2. Ben sapeva Maria
d’esser Vergine sacra e così a Gabriele diceva:
«Il tuo singolare messaggio
all’anima mia incomprensibile appare:
da grembo di vergine
un parto predici, esclamando:
Alleluia!»

3. Desiderava la Vergine
di capire il mistero
e al nunzio divino chiedeva:
«Potrà il verginale mio seno
mai dare alla luce un bambino?
Dimmelo!»
E Quegli riverente
acclamandola disse così:

Ave, Tu guida al superno consiglio;
Ave, Tu prova d’arcano mistero.
Ave, Tu il primo prodigio di Cristo;
Ave, compendio di sue verità.
Ave, o scala celeste
che scese l’Eterno;
Ave, o ponte che porti gli uomini al cielo.
Ave, dai cori degli Angeli cantato portento;
Ave, dall’orde dei dèmoni esecrato flagello.
Ave, la Luce ineffabile hai dato;
Ave, Tu il «modo» a nessuno hai svelato.
Ave, la scienza dei dotti trascendi;
Ave, al cuor dei credenti risplendi.
Ave, Sposa non sposata!

4. La Virtù dell’Altissimo
adombrò e rese Madre
la Vergine ignara di nozze:
quel seno, fecondo dall’alto,
divenne qual campo ubertoso per tutti,
che vogliono coglier salvezza
cantando così:
Alleluia!

5. Con in grembo il Signore
premurosa Maria
ascese e parlò a Elisabetta.
Il piccolo in seno alla madre
sentì il verginale saluto,
esultò,
e balzando di gioia
cantava alla Madre di Dio:

Ave, o tralcio di santo Germoglio;
Ave, o ramo di Frutto illibato.
Ave, coltivi il divino Cultore;
Ave, dai vita all’Autor della vita.
Ave, Tu campo che frutti ricchissime grazie;
Ave, Tu mensa che porti pienezza di doni.
Ave, un pascolo ameno Tu fai germogliare;
Ave, un pronto rifugio prepari ai fedeli.
Ave, di suppliche incenso gradito;
Ave, perdono soave del mondo.
Ave, clemenza di Dio verso l’uomo;
Ave, fiducia dell’uomo con Dio.
Ave, Sposa non sposata!

6. Con il cuore in tumulto
fra pensieri contrari
il savio Giuseppe ondeggiava:
tutt’ora mirandoti intatta
sospetta segreti sponsali, o illibata!
Quando Madre ti seppe
da Spirito Santo, esclamò:
Alleluia!

7. I pastori sentirono
i concerti degli Angeli
al Cristo disceso tra noi.
Correndo a vedere il Pastore,
lo mirano come agnellino innocente
nutrirsi alla Vergine in seno,
cui innalzano il canto:

Ave, o Madre all’Agnello Pastore,
Ave, o recinto di gregge fedele.
Ave, difendi da fiere maligne,
Ave, Tu apri le porte del cielo.
Ave, per Te con la terra esultano i cieli,
Ave, per Te con i cieli tripudia la terra.
Ave, Tu sei degli Apostoli la voce perenne,
Ave, dei Martiri sei l’indomito ardire.
Ave, sostegno possente di fede,
Ave, vessillo splendente di grazia.
Ave, per Te fu spogliato l’inferno,
Ave, per Te ci vestimmo di gloria.
Ave, Vergine e Sposa!


8. Osservando la stella
che guidava all’Eterno,
ne seguirono i Magi il fulgore.
Fu loro sicura lucerna
andando a cercare il Possente,
il Signore.
Al Dio irraggiungibile giunti,
l’acclaman beati:
Alleluia!

9. Contemplarono i Magi
sulle braccia materne
l’Artefice sommo dell’uomo.
Sapendo ch’Egli era il Signore
pur sotto l’aspetto di servo,
premurosi gli porsero i doni,
dicendo alla Madre beata:

Ave, o Madre dell’Astro perenne,
Ave, o aurora di mistico giorno.
Ave, fucine d’errori Tu spegni,
Ave, splendendo conduci al Dio vero.
Ave, l’odioso tiranno sbalzasti dal trono,
Ave, Tu il Cristo ci doni clemente Signore.
Ave, sei Tu che riscatti dai riti crudeli,
Ave, sei Tu che ci salvi dall’opre di fuoco.
Ave, Tu il culto distruggi del fuoco,
Ave, Tu estingui la fiamma dei vizi.
Ave, Tu guida di scienza ai credenti,
Ave, Tu gioia di tutte le genti.
Ave, Vergine e Sposa!

10. Banditori di Dio
diventarono i Magi
sulla via del ritorno.
Compirono il tuo vaticinio
e Te predicavano, o Cristo,
a tutti, noncuranti d’Erode,
lo stolto, incapace a cantare:
Alleluia!

11. Irradiando all’Egitto
lo splendore del vero,
dell’errore scacciasti la tenebra:
ché gli idoli allora, o Signore,
fiaccati da forza divina caddero;
e gli uomini, salvi,
acclamavan la Madre di Dio:

Ave, riscossa del genere umano,
Ave, disfatta del regno d’inferno.
Ave, Tu inganno ed errore calpesti,
Ave, degl’idoli sveli la frode.
Ave, Tu mare che inghiotti il gran Faraone,
Ave, Tu roccia che effondi le Acque di Vita.
Ave, colonna di fuoco che guidi nel buio,
Ave, riparo del mondo più ampio che nube.
Ave, datrice di manna celeste,
Ave, ministra di sante delizie.
Ave, Tu mistica terra promessa,
Ave, sorgente di latte e di miele.
Ave, Vergine e Sposa!

12. Stava già per lasciare
questo mondo fallace
Simeone, ispirato vegliardo.
Qual pargolo a lui fosti dato,
ma in Te riconobbe il Signore perfetto,
e ammirando stupito
l’eterna sapienza esclamò:
Alleluia!

PARTE TEMATICA

13. Di natura le leggi
innovò il Creatore,
apparendo tra noi, suoi figlioli:
fiorito da grembo di Vergine,
lo serba qual era da sempre, inviolato:
e noi che ammiriamo il prodigio
cantiamo alla Santa:

Ave, o fiore di vita illibata,
Ave, corona di casto contegno.
Ave, Tu mostri la sorte futura,
Ave, Tu sveli la vita degli Angeli.
Ave, magnifica pianta che nutri i fedeli,
Ave, bell’albero ombroso che tutti ripari.
Ave, Tu in grembo portasti la Guida agli erranti,
Ave, Tu desti alla luce Chi affranca gli schiavi.
Ave, Tu supplica al Giudice giusto,
Ave, perdono per tutti i traviati.
Ave, Tu veste ai nudati di grazia,
Ave, Amore che vinci ogni brama.
Ave, Vergine e Sposa!

14. Tale parto ammirando,
ci stacchiamo dal mondo
e al cielo volgiamo la mente.
Apparve per questo fra noi,
in umili umane sembianze l’Altissimo,
per condurre alla vetta
coloro che lieti lo acclamano:
Alleluia!

15. Era tutto qui in terra,
e di sé tutti i cieli
riempiva il Dio Verbo infinito:
non già uno scambio di luoghi,
ma un dolce abbassarsi di Dio verso l’uomo
fu nascer da Vergine,
Madre che tutti acclamiamo:

Ave, Tu sede di Dio, l’Infinito,
Ave, Tu porta di sacro mistero.
Ave, dottrina insicura per gli empi,
Ave, dei pii certissimo vanto.
Ave, o trono più santo del trono cherubico,
Ave, o seggio più bello del seggio serafico.
Ave, o tu che congiungi opposte grandezze,
Ave, Tu che sei in una e Vergine e Madre.
Ave, per Te fu rimessa la colpa,
Ave, per Te il paradiso fu aperto.
Ave, o chiave del regno di Cristo,
Ave, speranza di eterni tesori.
Ave, Vergine e Sposa!

16. Si stupirono gli Angeli
per l’evento sublime
della tua Incarnazione divina:
ché il Dio inaccessibile a tutti
vedevano fatto accessibile, uomo,
dimorare fra noi
e da ognuno sentirsi acclamare:
Alleluia!

17. Gli oratori brillanti
come pesci son muti
per Te, Genitrice di Dio:
del tutto incapaci di dire
il modo in cui Vergine e Madre Tu sei.
Ma noi che ammiriamo il mistero
cantiamo con fede:

Ave, sacrario d’eterna Sapienza,
Ave, tesoro di sua Provvidenza.
Ave, Tu i dotti riveli ignoranti,
Ave, Tu ai retori imponi il silenzio.
Ave, per Te sono stolti sottili dottori,
Ave, per Te vengon meno autori di miti.
Ave, di tutti i sofisti disgreghi le trame,
Ave, Tu dei Pescatori riempi le reti.
Ave, ci innalzi da fonda ignoranza,
Ave, per tutti sei faro di scienza.
Ave, Tu barca di chi ama salvarsi,
Ave, Tu porto a chi salpa alla Vita.
Ave, Vergine e Sposa!

18. Per salvare il creato,
il Signore del mondo,
volentieri discese quaggiù.
Qual Dio era nostro Pastore,
ma volle apparire tra noi come Agnello:
con l’umano attraeva gli umani,
qual Dio l’acclamiamo:
Alleluia!

19. Tu difesa di vergini,
Madre Vergine sei,
e di quanti ricorrono a Te:
che tale ti fece il Signore
di tutta la terra e del cielo, o illibata,
abitando il tuo grembo
e invitando noi tutti a cantare:

Ave, colonna di sacra purezza,
Ave, Tu porta d’eterna salvezza.
Ave, inizio di nuova progenie,
Ave, datrice di beni divini.
Ave, Tu vita hai ridato ai nati nell’onta,
Ave, hai reso saggezza ai privi di senno.
Ave, o Tu che annientasti il gran seduttore,
Ave, o Tu che dei casti ci doni l’autore.
Ave, Tu grembo di nozze divine,
Ave, che unisci i fedeli al Signore.
Ave, di vergini alma nutrice,
Ave, che l’anime porti allo Sposo.
Ave, Vergine e Sposa!

20.Cede invero ogni canto
he presuma eguagliare
le tue innumerevoli grazie.
Se pure ti offrissimo inni
per quanti granelli di sabbia, Signore,
mai pari saremmo ai tuoi doni
che desti a chi canta:
Alleluia!

21. Come fiaccola ardente
per che giace nell’ombre
contempliamo la Vergine santa,
che accese la luce divina
e guida alla scienza di Dio tutti,
splendendo alle menti
e da ognuno è lodata col canto:

Ave, o raggio di Sole divino,
Ave, o fascio di Luce perenne.
Ave, rischiari qual lampo le menti,
Ave, qual tuono i nemici spaventi.
Ave, per noi sei la fonte dei sacri Misteri,
Ave, Tu sei la sorgente dell’Acque abbondanti.
Ave, in Te raffiguri l’antica piscina,
Ave, le macchie detergi dei nostri peccati.
Ave, o fonte che l’anime mondi,
Ave, o coppa che versi letizia.
Ave, o fragranza del crisma di Cristo,
Ave, Tu vita del sacro banchetto.
Ave, Vergine e Sposa!

22. Condonare volendo
ogni debito antico,
fra noi, il Redentore dell’uomo
discese e abitò di persona:
fra noi che avevamo perduto la grazia.
Distrusse lo scritto del debito,
e tutti l’acclamano:
Alleluia!

23. Inneggiando al tuo parto
l’universo ti canta
qual tempio vivente, o Regina!
Ponendo in tuo grembo dimora
Chi tutto in sua mano contiene, il Signore,
tutta santa ti fece e gloriosa
e ci insegna a lodarti:

Ave, o «tenda» del Verbo di Dio,
Ave, più grande del «Santo dei Santi».
Ave, Tu «Arca» da Spirito aurata,
Ave, «tesoro» inesausto di vita.
Ave, diadema prezioso dei santi sovrani,
Ave, dei pii sacerdoti Tu nobile vanto.
Ave, Tu sei per la Chiesa qual torre possente,
Ave, Tu sei per l’Impero qual forte muraglia.
Ave, per Te innalziamo trofei,
Ave, per Te cadon vinti i nemici.
Ave, Tu farmaco delle mie membra,
Ave, salvezza dell’anima mia.
Ave, Vergine e Sposa!

24. Grande ed inclita Madre,
Genitrice del sommo fra i Santi,
Santissimo Verbo,
or degnati accogliere il canto!
Preservaci da ogni sventura, tutti!
Dal castigo che incombe
Tu libera noi che gridiamo:
Alleluia!

Perché vale la pena conoscere Pavel Florenskij

(di Giancarlo Polenghi)

Un russo, visionario, matematico e fisico, ingegnere elettrotecnico, che ha fatto scoperte scientifiche lungo tutta la sua vita e registrato brevetti, sacerdote ortodosso, padre di cinque figli, filosofo della religione e teologo, studioso di estetica, simbologia e linguaggio.

Ha vissuto 55 anni, dal 1882 al 1937, di cui 5 passati in campo di concentramento, dove è stato fucilato dal regime sovietico. Pare che la sua morte sia avvenuta nel tentativo di salvare la vita ad altri suoi compagni di prigionia. Una sorta di libero sacrificio.

Il suo volto è magnetico: un ovale allungato, segnato dal naso diritto, uno sguardo attento e buono, i capelli lunghi, una rada barba. Esistono sue foto in cui veste la tonaca sacerdotale e la croce sul petto, ma anche alcune che lo ritraggono giocando con i suoi figli, o l’ultima del 1934, fatta nel campo di concentramento, tipica foto segnaletica di fronte e di profilo.

Posare lo sguardo su quest’uomo mette voglia di saperne di più. Anche perché è proprio lui a dire che lo sguardo è “somiglianza a Dio resa presente sul volto”. Tipica osservazione di Florenskij che sempre sapeva andare dal particolare e concreto, alle cause ultime, al senso definitivo che spiega tutto. In un’opera scrive: “ il corpo è simbolo dello spirito, è una manifestazione delle condizioni dello spirito (…) una condizione spirituale visibile dall’esterno”. Parole che sono molto simile a quelle impiegate anni dopo da San Giovanni Paolo II quando trattava della teologia del corpo.

C’è chi considera Florenskij un autore che propone teorie ascientifiche e poco sistematiche. Ma nessuno può negare che sia un pensatore originale e affascinante. Leggere le opere di Florenskij (12 libri che spaziano tra le più diverse discipline) può essere impegnativo, sia per la mole degli scritti che per il suo approccio rapsodico.

Alcuni consigliano di leggere le lettere che lui ha scritto dal gulag (Non dimenticatemi. Le lettere dal gulag del grande matematico, fisico e sacerdote russo, Mondadori 2006) perché in esse si trova il succo del suo pensiero.

A me è capitato di imbattermi in un saggio di Ivan Menara (Pavel Florenskij, Libertà e simbolo, 2016 Casa Editrice Il Margine) che ho trovato molto stimolante e che mi ha fatto nascere una profonda stima in padre Florenskij.

Menara, che da filosofo ha elaborato questo saggio di presentazione del pensiero di Florenskij, grazie anche alla collaborazione con Silvano Zucal (professore di filosofia teoretica e filosofia della religione a Trento), ci permette di apprendere in modo ordinato e sistematico il percorso intellettuale del nostro.

Ciò che colpisce subito è che il suo pensiero nasce dalla vita, ed è vitale. Florenskij con i suoi molteplici interessi cerca sempre il senso più profondo dell’insieme, è una sorta di urgenza esistenziale, che lo spinge prima verso la scienza e poi verso la religione e la teologia, pur senza mai abbandonare la scienza. La parola vita è cruciale per avvicianarsi a lui. Le altre due parole chiave sono libertà (l’intima essenza dell’uomo e di Dio) e simbolo, come dice il titolo del libro stesso.  E se dovessimo proporne una quarta questa sarebbe unità.

Florenskij nota che ci sono due tipi di rapporti con il mondo, quello interiore e quello esteriore, e due tipi di cultura, quella contemplativo-creativa e quella rapace-meccanica. Quest’ultima tende a possedere la realtà, ad oggettificarla, a dominarla, ma alla fine ci porta a distruggere la natura stessa e a passare da dominatori a dominati. L’ossessione per la pianificazione, la normalizzazione e il controllo sono fenomeni collegati. La conoscenza nasce dall’intuizione ma poi, per essere comunicata, deve passare dal ragionamento, dalla dimostrazione. Ciò è giusto e naturale, ma in quel tipo di processo si perde qualcosa di fondamentale: si perde il collegamento con il tutto, il senso più profondo. Ecco perché il simbolo (ossia un essere che è più di se stesso, una certa cosa che manifesta da sé ciò che non è e che si manifesta attraverso di esso) diventa un modo, anzi il modo, per trovare l’unità e anche la libertà.

La contemplazione è l’orizzonte della libertà perché vede con lo sguardo di Dio, con uno sguardo disinteressato e non sfruttatore. Questo è il linguaggio dell’arte, e la vita è un compito artistico. Il simbolo, che è un modo di vedere, non dimostra, non riduce, ma evoca, permette di essere costantemente rivisitato, non definisce. E non definire è importante di fronte a Dio che è infinito, e quindi indefinibile, ma anche di fronte alle persone, e al mistero del mondo e della natura. Il simbolo spia il mistero, lo avvicina senza svelarlo. Per lui la parola è simbolo, come lo sono i nomi e l’arte, quella sacra in particolare che ci mette in contatto con il divino.

Florenskij conosceva il pensiero di Solov’ev e ne fa tesoro in una sua sintesi originale. Sullo sfondo di tutto c’è una profonda fede cristiana, trinitaria. Florenskij è convinto che il primo passo per la conoscenza è un abbassamento, un’uscita da sé, un andare verso l’altro. “L’insistenza nel non uscire da sé stessi – scrive – è il peccato radicale, ossia la radice di tutti i peccati.”

La sua critica all’individualismo è molto serrata e, io credo, di grande attualità. Insomma la lettura della sua opera conferma quanto ebbe a scrivere poco prima di morire: “La mia più intima persuasione è questa: nulla si perde completamente, nulla svanisce, ma si custodisce in qualche tempo e in qualche luogo. Ciò che è immagine del bene e ha valore rimane, anche se noi cessiamo di percepirlo.”

 

Ivan Menara

Pavel Florenskij, Libertà e simbolo

2016 Casa Editrice Il Margine

Il disordine che viene

Coronavirus, conflitti, e capro espiatorio

di Giancarlo Polenghi

Questo articolo, che come di consueto è collegato ad un invito alla lettura, prende spunto da ciò che tutti in Italia abbiamo vissuto in questo periodo. Il libro è un classico e si chiama Il sacrificio (René Girard Il sacrificio, a cura di Pierpaolo Antonello, Raffaello Cortina, Milano 2004). Assieme ad altre riflessioni tratteggiamo la teoria del “capro espiatorio” che Girard ha teorizzato anche in La violenza e il sacro, Adelphi 1992.

Minacciati, in pericolo, senza certezze, abbiamo avuto paura. Ed è stata proprio la paura a scatenare il conflitto, dentro e intorno a noi. Un conflitto nato da accuse, alla ricerca di colpevoli (della pandemia o della sua gestione) e, come direbbe René Girard, di qualcuno da trasformare in capro espiatorio.

Le autorità, bene o male, hanno tentato di reagire, stabilendo nuove regole di comportamento. E il conflitto si è scatenato subito contro di loro, perché hanno imposto regole troppo rigorose (come in Italia) o troppo poco rigorose (come nel Regno Unito).

Un conflitto su tutti i fronti: delle idee e delle visioni della vita. Il bene della salute e della vita, contro il bene dell’economia e del lavoro. Un conflitto globale e internazionale tra gli untori e le vittime, tra la Cina, dove il morbo è partito, e gli Stati Uniti, dove ha registrato più vittime.

Ma anche a livello nazionale il litigio è esploso tra maggioranza e opposizione, tra governo centrale e Regioni, tra paesi d’Europa più colpiti e quelli meno. Un conflitto tra le povere vittime (noi) e i ricchi meno colpiti (la Germania, l’Olanda), che non vedono perché debbano pagare per gli altri. L’idea stessa di Europa è stata messa in discussione, attraverso controversie accese.

A livello sanitario c’è stato lo scontro tra gli ospedali pubblici, pieni di eroi e le strutture sanitarie private, con tante vittime e quindi per definizione mal gestite. Ecco allora i buoni e i cattivi. Conflitti anche tra Nord e Sud, e al Nord tra il modello Lombardia (che ha funzionato male) e il modello Veneto (più efficiente).

Chi sono i colpevoli, se ce ne sono? Dove sono le responsabilità? E a quando risalgono?

Leggere le opposte visioni è doveroso, e necessario. Ma bisogna fare attenzione ai capri espiatori perché accanirsi su di loro è invece inutile (se non per l’equilibrio psichico di chi si scarica di colpe e responsabilità) e ingiusto. Eppure questo è avvenuto.

Da sempre, quando c’è un problema grave, quando una nave rischia il naufragio, e non si sa più che cosa fare, si cerca un capro espiatorio ossia un colpevole da sacrificare agli Dei, con la speranza che ciò serva. Scaricare tutte le colpe su qualcuno è facile e indolore. Che poi la cosa sia risolutiva è un altro paio di maniche. Eppure questo è un modo di pensare più diffuso di quanto non si pensi.

Il conflitto si innesca con più facilità lì dove c’è paura, minaccia dall’esterno, lì dove gli spazi di convivenza diventano più “stretti” (l’incremento di casi di violenza nelle mura domestiche parlano chiaro), ma, con le stesse premesse, è anche possibile uno sviluppo del tutto diverso. Abbiamo letto spesso “Insieme ce la faremo” e “andrà tutto bene, se stiamo uniti”. Perfino la pubblicità ha affermato cose simili. Perché la paura, l’ignoto, il pericolo possono anche far nascere alleanze, sodalizi, capacità rinnovate ad intendersi, mettendo da parte le divisioni. Un esempio pubblico è stato l’appello dell’Alto Comitato per la Fratellanza umana, ripreso e amplificato da Papa Francesco, di chiedere alle diverse religioni del mondo di unirsi, il 14 maggio 2020, in una preghiera a Dio, implorando per la fine di questa e di altre pandemie. E questa capacità di cercare l’unione, il dialogo, anche quando c’è la crisi, perfino l’aggressione, è una caratteristica del cristianesimo. Tant’è che capro espiatorio, l’agnello di Dio che toglie i peccati del mondo, si è fatto Dio stesso salendo sulla croce. Una scelta incomprensibile “scandalo per i giudei, stoltezza per i pagani”, ma anche un deciso intervento che si capisce solo nella logica dell’amore, dell’unione, della relazione, del dialogo. Tra l’altro, in questo caso, è davvero qualcuno che si carica di tutto il male e il suo sacrificio è efficace.

Il corona virus è stato (ed è tutt’ora) anche un moltiplicatore di sentimenti e di emozioni, causando una conflittualità rinnovata e amplificata, e insieme è, un dispositivo che facilita relazioni, condivisione e alleanze forti e profonde. In questi tempi abbiamo visto famiglie che si dividono, e famiglie che ritrovano l’armonia e il piacere di essere unite, comunità che cadono a pezzi, e altre che si rafforzano, con un rinnovato senso di appartenenza. Noi cristiani dovremmo essere in questo secondo gruppo, operatori sempre di pace e unità.

 

René Girard

Il sacrificio

a cura di Pierpaolo Antonello

Raffaello Cortina, Milano 2004

La violenza e il sacro

Adelphi 1992.

 

 

Il confine tra il mondo terreno e quello divino è nel simbolo

(di  Giancarlo Polenghi)

 

Il saggio sull’icona “Le porte regali” di Pavel A. Florenskij ci porta al cuore del rapporto tra due mondi, quello invisibile dello Spirito, e quindi di Dio, e quello visibile del nostro mondo materiale. La domanda da cui parte l’autore è diretta: dove si trova il confine tra questi due mondi, ossia dove possiamo trovare quell’elemento che li distingue, unendoli al contempo, e che quindi permette una certa permeabilità?

Florenskij, che i suoi contemporanei definivano il “Leonardo da Vinci della Russia”, affronta il problema con sensibilità teologica e scientifica insieme, come si evince da questo brano: “In noi il velo del visibile per un istante si squarcia e attraverso di esso, mentre ancora si avverte lo squarcio, ecco, invisibile soffia un alito che non è di quaggiù: questo e l’altro mondo si aprono l’uno all’altro, e la nostra vita è sollevata da un fiotto incessante, come quando la temperatura fa salire in alto l’aria calda.”

Per lui il primo e più comune (nel senso di accessibile) passo della vita verso l’invisibile è il sogno, perché esso è un solo e medesimo evento che è concepito nelle due coscienze umane, quella notturna (nel sonno) e quella diurna (nella veglia).

La questione è certamente intrigante per chi abbia a cuore l’arte sacra che mira a produrre immagini che facciano trasparire l’invisibile e l’infinito. Raffigurare Cristo, o sua Madre, non è come ritrarre semplicemente un uomo o una donna, perché essi sono molto di più. E questa capacità è sempre nello sguardo, più che nella capacità di saper tecnicamente trasferire sulla tavola o sulla tela ciò che l’occhio vede.

Per Florenskij il sogno è allora un segno e un simbolo del trapasso dall’una all’altra sfera.

“Da dove vengono le immagini sacre?” possiamo chiederci. Certamente hanno a che fare con ciò che i nostri sensi percepiscono, con la realtà intorno a noi, e – nel caso dell’arte sacra – possono (e debbono) basarsi principalmente  sulla Sacra Scrittura, che con parole evoca eventi, storie e immagini. Tra le molte pagine della Sacra Scritture quelle più lontane dalla realtà percepibile, e le più oniriche, sono probabilmente le visioni dell’Apocalisse, una sorta di sogno simbolico icastico e misterioso.

Ma le immagini, oltre che dalle storie della Sacra Scrittura – anche da quelle più umane e quotidiane – nascono, e sono nate, anche dalle visioni dei mistici che in estasi hanno visto qualcosa che urge essere annunciato. I mistici, e i profeti, sono dei visionari che proponendo immagini ed esperienze soggettive sono percepiti sempre con sospetto da chi difende il depositum fidei (la vera dottrina) e attendono la “validazione” dell’istituzione prima di poter a pieno titolo alimentare l’immaginario collettivo.  Ma il loro contributo è potente. Pensiamo, per esempio, a come San Francesco abbia, con le sue visioni, cambiato per sempre il cristianesimo introducendo il Cristo Patients, la devozione alla croce, la via crucis, e la tenerezza di fronte alla scena della natività. San Francesco ha contribuito alla percezione umana e fisica del Cristo, imprimendo alla tradizione occidentale un impulso decisivo e duraturo.

Ma continuiamo a seguire Florenskij nel filo del suo ragionamento: se il sogno è un simbolo (ricordo che i mistici e i profeti sono spesso chiamati sognatori), di che cosa lo è? Visto dall’alto è un simbolo di quaggiù, e visto da quaggiù è un simbolo dell’alto.

“Così nella creazione artistica – afferma il nostro autore – l’anima si solleva dal mondo terreno ed entra nel mondo celeste. Lì si nutre senza immagini della contemplazione di quel mondo, tocca gli eterni noumeni delle cose e, quando se ne è impregnata, colma di conoscenza ridiscende nel mondo terreno. E giù per quella strada presso la frontiera terrena, il tesoro spirituale che ha acquistato viene investito di immagine simboliche – le stesse che, fissandosi,  formano l’opera d’arte.”

Ecco allora perché gli artisti sono tanto importanti nel cristianesimo. Non solo per via della bellezza (che pure è via per Dio), ma ben più come “sacerdoti e profeti” che aiutano il popolo di Dio ad entrare in comunione con il loro Padre celeste. San Paolo VI, infatti, diceva che la Chiesa ha urgente bisogno degli artisti.

Naturalmente Florenskij parla delle icone e della tradizione orientale, ritenendo che essa, proprio in quanto più simbolica e meno naturalistica, possa meglio penetrare (lui direbbe piuttosto far trasparire) il divino.

In effetti, a me pare, che l’arte occidentale tenti di penetrare, partendo dalla natura umana, per arrivare alla natura divina; l’arte orientale viceversa, partendo dal simbolo, cerca di far trasparire il divino trasfigurando l’umano. È come se da una parte (questo sarebbe l’approccio occidentale) incontrassimo Gesù Cristo sulle vie polverose della Palestina – magari dalle parti di Emmaus – mentre nel caso della tradizione orientale, l’incontro avvenisse sul monte Tabor, mentre rifulge in bianche vesti. Non a caso per gli “scrittori di icone” la scena della trasfigurazione ha una particolare importanza, e costituisce un grado nella preparazione dell’iconografo.

Per Florenskij i veri pittori delle icone sono i Santi Padri, perché essi hanno contemplato l’archetipo, il modello meglio di chiunque altri.

Nel contempo egli afferma che è l’esperienza spirituale che genera l’icona. Una “vera icona” dovrebbe essere sempre poggiata su quattro pilastri: 1. La parola di Dio (la Bibbia); 2. Il modello iconografico legato all’esperienza del pittore canonico (tra l’altro dice Florenskij che il canone libera le energie creative dell’artista verso nuove mete e voli creativi); 3. La tradizione praticata nei secoli e, infine 4. La personale esperienza interiore dell’artista.

Il saggio contiene anche osservazioni profonde sull’arte di Raffaello e sulla sua “ispirata” capacità di raffigurare la madre di Dio, e altre note sulla tradizione artistica protestante, che domina l’arte dell’incisione e, secondo l’autore, nasce da una teologia raziocinante e rigorosa (che però manca di cuore), mentre quella cattolica, che eccelle con la pittura ad olio, sarebbe più “spirituale” e contemplativa di quella protestante, ma rischia di essere troppo naturalistica e di diventare solo umana.

Il libro, a mio avviso, è molto interessante per capire meglio la tradizione Orientale, che viene presentata come la strada più sicura e diretta  per unire il cielo e la terra. Ma sono anche stimolanti le riflessioni sulle altre tradizioni artistiche.

Le ragioni profonde sulle “porte regali” di Florenskij, a mio avviso, possono essere fatte proprie anche da chi voglia utilizzare linguaggi differenti rispetto alle icone, perché indubbiamente il pensiero che le sottende ha solide fondamenta che vanno al di là degli stili e delle lingue particolari.

 

Pavel A. Florenskij,

Le porte regali. Saggio sull’icona

Marsilio Editori, 2018

 

Non è bene che Dio sia solo