Le lettere per capire l’Opus Dei

di Giancarlo Polenghi   La prima impressione è di leggere qualcosa di innovativo e rivoluzionario che, senza tagliare con la tradizione cattolica più autentica, presenta un cammino spirituale, quello dell’Opus Dei, in modo semplice e profondo, deciso ed esigente ma al contempo pieno di comprensione e di calore per le persone e le loro fragilità. […]

Il disagio del tempo moderno

di Giancarlo Polenghi

 

Quanti sono i libri che una volta finiti si sente il forte desiderio di farli conoscere ad altri? I libri che per la loro forza e chiarezza si pensa che rimarranno a lungo nella memoria? Per esperienza personale – totalmente soggettiva – posso dire che sono meno di uno su venti-trenta (quindi meno del 3-4%). A me capita di leggere circa un libro a settimana, a volte due, (quindi un centinaio di libri in due anni) e lo faccio seguendo filoni precisi, ossia con una strategia che, dal punto di vista culturale, professionale o di svago, tende a minimizzare letture che possa poi giudicare “inutili”. Credo che questo è ciò che faccia qualunque lettore.

Bene, dopo aver fatto questa premessa, con una certa soddisfazione, mi appresto a presentarvi il libro che più mi ha convinto nell’ultimo biennio di letture. Si tratta di un saggio di sociologia che, con argomenti convincenti, spiega il disagio del tempo in cui viviamo. Un disagio, che prende la forma dell’oppressione, e che, come una mano invisibile – e perciò ancora più temibile –, rende la vita affannata, di corsa, priva di tempi e spazi per ciò che davvero ci interessa.

L’autore è il sociologo tedesco, 55enne, Hartmut Rosa, il titolo del libro è: “Accelerazione e alienazione, per una teoria critica del tempo nella tarda modernità, Einaudi 2015”.

La sua intuizione è tutta contenuta nel titolo: l’accelerazione della vita moderna (lui la chiama tarda modernità) è la causa del malessere personale e sociale dell’Occidente, tecnicamente denominata alienazione.

Secondo l’autore, l’accelerazione tecnologica, che è sotto gli occhi di tutti, provoca e consolida anche un’accelerazione dei mutamenti sociali e dei ritmi di vita. La ragione per cui tutti tendono a correre (o pensano di star correndo), per non restare indietro, è legata al fatto che – senza che nessuno ce lo imponga – si avverte il dovere di competere e di mantenere alte le prestazioni. Rosa ritiene che la competizione sia il motore sociale dell’accelerazione, così come la promessa dell’eternità lo sia per la cultura. Perché una vita accelerata sarebbe fonte di alienazione? Perché essa disallinea i ritmi tra noi e le cose (e il mondo – ossia la realtà -), tra noi e gli altri e tra noi con noi stessi. Ne va non solo del rapporto tra produzione, acquisto e consumo (si produce più di quanto si possa consumare, creando sprechi, scarti e “falsi bisogni”), ma perfino dell’identità personale, che si ritrova sempre più costretta all’interno del riconoscimento sociale, a scapito dell’adesione agli ideali e valori scelti. L’accelerazione allora diventa una nuova forma di totalitarismo che produce malattie da desincronizzazione, e che agisce nel più completo anonimato, sotto le mentite spoglie di una condizione inevitabile e pure scelta liberamente. Queste poche maldestre righe di presentazione hanno il solo obiettivo di invitare alla lettura, dal momento che l’analisi e l’argomentazione in sé è non solo molto più ricca e profonda, ma anche piena di sfumature e riflessioni godibili sia dagli amanti del genere sociologico che del grande pubblico non specialistico. By the way, il libro non contiene ricette o soluzioni. Solo alla fine si accenna alla religione e all’arte come possibili percorsi salutari. Come non essere d’accordo?

 

Hartmut Rosa

Accelerazione e alienazione

Per una teoria critica del tempo nella tarda modernità

Einaudi 2015 (anche in edizione ebook)

 

Perché vale la pena conoscere Pavel Florenskij

(di Giancarlo Polenghi)

Un russo, visionario, matematico e fisico, ingegnere elettrotecnico, che ha fatto scoperte scientifiche lungo tutta la sua vita e registrato brevetti, sacerdote ortodosso, padre di cinque figli, filosofo della religione e teologo, studioso di estetica, simbologia e linguaggio.

Ha vissuto 55 anni, dal 1882 al 1937, di cui 5 passati in campo di concentramento, dove è stato fucilato dal regime sovietico. Pare che la sua morte sia avvenuta nel tentativo di salvare la vita ad altri suoi compagni di prigionia. Una sorta di libero sacrificio.

Il suo volto è magnetico: un ovale allungato, segnato dal naso diritto, uno sguardo attento e buono, i capelli lunghi, una rada barba. Esistono sue foto in cui veste la tonaca sacerdotale e la croce sul petto, ma anche alcune che lo ritraggono giocando con i suoi figli, o l’ultima del 1934, fatta nel campo di concentramento, tipica foto segnaletica di fronte e di profilo.

Posare lo sguardo su quest’uomo mette voglia di saperne di più. Anche perché è proprio lui a dire che lo sguardo è “somiglianza a Dio resa presente sul volto”. Tipica osservazione di Florenskij che sempre sapeva andare dal particolare e concreto, alle cause ultime, al senso definitivo che spiega tutto. In un’opera scrive: “ il corpo è simbolo dello spirito, è una manifestazione delle condizioni dello spirito (…) una condizione spirituale visibile dall’esterno”. Parole che sono molto simile a quelle impiegate anni dopo da San Giovanni Paolo II quando trattava della teologia del corpo.

C’è chi considera Florenskij un autore che propone teorie ascientifiche e poco sistematiche. Ma nessuno può negare che sia un pensatore originale e affascinante. Leggere le opere di Florenskij (12 libri che spaziano tra le più diverse discipline) può essere impegnativo, sia per la mole degli scritti che per il suo approccio rapsodico.

Alcuni consigliano di leggere le lettere che lui ha scritto dal gulag (Non dimenticatemi. Le lettere dal gulag del grande matematico, fisico e sacerdote russo, Mondadori 2006) perché in esse si trova il succo del suo pensiero.

A me è capitato di imbattermi in un saggio di Ivan Menara (Pavel Florenskij, Libertà e simbolo, 2016 Casa Editrice Il Margine) che ho trovato molto stimolante e che mi ha fatto nascere una profonda stima in padre Florenskij.

Menara, che da filosofo ha elaborato questo saggio di presentazione del pensiero di Florenskij, grazie anche alla collaborazione con Silvano Zucal (professore di filosofia teoretica e filosofia della religione a Trento), ci permette di apprendere in modo ordinato e sistematico il percorso intellettuale del nostro.

Ciò che colpisce subito è che il suo pensiero nasce dalla vita, ed è vitale. Florenskij con i suoi molteplici interessi cerca sempre il senso più profondo dell’insieme, è una sorta di urgenza esistenziale, che lo spinge prima verso la scienza e poi verso la religione e la teologia, pur senza mai abbandonare la scienza. La parola vita è cruciale per avvicianarsi a lui. Le altre due parole chiave sono libertà (l’intima essenza dell’uomo e di Dio) e simbolo, come dice il titolo del libro stesso.  E se dovessimo proporne una quarta questa sarebbe unità.

Florenskij nota che ci sono due tipi di rapporti con il mondo, quello interiore e quello esteriore, e due tipi di cultura, quella contemplativo-creativa e quella rapace-meccanica. Quest’ultima tende a possedere la realtà, ad oggettificarla, a dominarla, ma alla fine ci porta a distruggere la natura stessa e a passare da dominatori a dominati. L’ossessione per la pianificazione, la normalizzazione e il controllo sono fenomeni collegati. La conoscenza nasce dall’intuizione ma poi, per essere comunicata, deve passare dal ragionamento, dalla dimostrazione. Ciò è giusto e naturale, ma in quel tipo di processo si perde qualcosa di fondamentale: si perde il collegamento con il tutto, il senso più profondo. Ecco perché il simbolo (ossia un essere che è più di se stesso, una certa cosa che manifesta da sé ciò che non è e che si manifesta attraverso di esso) diventa un modo, anzi il modo, per trovare l’unità e anche la libertà.

La contemplazione è l’orizzonte della libertà perché vede con lo sguardo di Dio, con uno sguardo disinteressato e non sfruttatore. Questo è il linguaggio dell’arte, e la vita è un compito artistico. Il simbolo, che è un modo di vedere, non dimostra, non riduce, ma evoca, permette di essere costantemente rivisitato, non definisce. E non definire è importante di fronte a Dio che è infinito, e quindi indefinibile, ma anche di fronte alle persone, e al mistero del mondo e della natura. Il simbolo spia il mistero, lo avvicina senza svelarlo. Per lui la parola è simbolo, come lo sono i nomi e l’arte, quella sacra in particolare che ci mette in contatto con il divino.

Florenskij conosceva il pensiero di Solov’ev e ne fa tesoro in una sua sintesi originale. Sullo sfondo di tutto c’è una profonda fede cristiana, trinitaria. Florenskij è convinto che il primo passo per la conoscenza è un abbassamento, un’uscita da sé, un andare verso l’altro. “L’insistenza nel non uscire da sé stessi – scrive – è il peccato radicale, ossia la radice di tutti i peccati.”

La sua critica all’individualismo è molto serrata e, io credo, di grande attualità. Insomma la lettura della sua opera conferma quanto ebbe a scrivere poco prima di morire: “La mia più intima persuasione è questa: nulla si perde completamente, nulla svanisce, ma si custodisce in qualche tempo e in qualche luogo. Ciò che è immagine del bene e ha valore rimane, anche se noi cessiamo di percepirlo.”

 

Ivan Menara

Pavel Florenskij, Libertà e simbolo

2016 Casa Editrice Il Margine

Coronavirus, conflitti, e capro espiatorio

di Giancarlo Polenghi

Questo articolo, che come di consueto è collegato ad un invito alla lettura, prende spunto da ciò che tutti in Italia abbiamo vissuto in questo periodo. Il libro è un classico e si chiama Il sacrificio (René Girard Il sacrificio, a cura di Pierpaolo Antonello, Raffaello Cortina, Milano 2004). Assieme ad altre riflessioni tratteggiamo la teoria del “capro espiatorio” che Girard ha teorizzato anche in La violenza e il sacro, Adelphi 1992.

Minacciati, in pericolo, senza certezze, abbiamo avuto paura. Ed è stata proprio la paura a scatenare il conflitto, dentro e intorno a noi. Un conflitto nato da accuse, alla ricerca di colpevoli (della pandemia o della sua gestione) e, come direbbe René Girard, di qualcuno da trasformare in capro espiatorio.

Le autorità, bene o male, hanno tentato di reagire, stabilendo nuove regole di comportamento. E il conflitto si è scatenato subito contro di loro, perché hanno imposto regole troppo rigorose (come in Italia) o troppo poco rigorose (come nel Regno Unito).

Un conflitto su tutti i fronti: delle idee e delle visioni della vita. Il bene della salute e della vita, contro il bene dell’economia e del lavoro. Un conflitto globale e internazionale tra gli untori e le vittime, tra la Cina, dove il morbo è partito, e gli Stati Uniti, dove ha registrato più vittime.

Ma anche a livello nazionale il litigio è esploso tra maggioranza e opposizione, tra governo centrale e Regioni, tra paesi d’Europa più colpiti e quelli meno. Un conflitto tra le povere vittime (noi) e i ricchi meno colpiti (la Germania, l’Olanda), che non vedono perché debbano pagare per gli altri. L’idea stessa di Europa è stata messa in discussione, attraverso controversie accese.

A livello sanitario c’è stato lo scontro tra gli ospedali pubblici, pieni di eroi e le strutture sanitarie private, con tante vittime e quindi per definizione mal gestite. Ecco allora i buoni e i cattivi. Conflitti anche tra Nord e Sud, e al Nord tra il modello Lombardia (che ha funzionato male) e il modello Veneto (più efficiente).

Chi sono i colpevoli, se ce ne sono? Dove sono le responsabilità? E a quando risalgono?

Leggere le opposte visioni è doveroso, e necessario. Ma bisogna fare attenzione ai capri espiatori perché accanirsi su di loro è invece inutile (se non per l’equilibrio psichico di chi si scarica di colpe e responsabilità) e ingiusto. Eppure questo è avvenuto.

Da sempre, quando c’è un problema grave, quando una nave rischia il naufragio, e non si sa più che cosa fare, si cerca un capro espiatorio ossia un colpevole da sacrificare agli Dei, con la speranza che ciò serva. Scaricare tutte le colpe su qualcuno è facile e indolore. Che poi la cosa sia risolutiva è un altro paio di maniche. Eppure questo è un modo di pensare più diffuso di quanto non si pensi.

Il conflitto si innesca con più facilità lì dove c’è paura, minaccia dall’esterno, lì dove gli spazi di convivenza diventano più “stretti” (l’incremento di casi di violenza nelle mura domestiche parlano chiaro), ma, con le stesse premesse, è anche possibile uno sviluppo del tutto diverso. Abbiamo letto spesso “Insieme ce la faremo” e “andrà tutto bene, se stiamo uniti”. Perfino la pubblicità ha affermato cose simili. Perché la paura, l’ignoto, il pericolo possono anche far nascere alleanze, sodalizi, capacità rinnovate ad intendersi, mettendo da parte le divisioni. Un esempio pubblico è stato l’appello dell’Alto Comitato per la Fratellanza umana, ripreso e amplificato da Papa Francesco, di chiedere alle diverse religioni del mondo di unirsi, il 14 maggio 2020, in una preghiera a Dio, implorando per la fine di questa e di altre pandemie. E questa capacità di cercare l’unione, il dialogo, anche quando c’è la crisi, perfino l’aggressione, è una caratteristica del cristianesimo. Tant’è che capro espiatorio, l’agnello di Dio che toglie i peccati del mondo, si è fatto Dio stesso salendo sulla croce. Una scelta incomprensibile “scandalo per i giudei, stoltezza per i pagani”, ma anche un deciso intervento che si capisce solo nella logica dell’amore, dell’unione, della relazione, del dialogo. Tra l’altro, in questo caso, è davvero qualcuno che si carica di tutto il male e il suo sacrificio è efficace.

Il corona virus è stato (ed è tutt’ora) anche un moltiplicatore di sentimenti e di emozioni, causando una conflittualità rinnovata e amplificata, e insieme è, un dispositivo che facilita relazioni, condivisione e alleanze forti e profonde. In questi tempi abbiamo visto famiglie che si dividono, e famiglie che ritrovano l’armonia e il piacere di essere unite, comunità che cadono a pezzi, e altre che si rafforzano, con un rinnovato senso di appartenenza. Noi cristiani dovremmo essere in questo secondo gruppo, operatori sempre di pace e unità.

 

René Girard

Il sacrificio

a cura di Pierpaolo Antonello

Raffaello Cortina, Milano 2004

La violenza e il sacro

Adelphi 1992.

 

 

Il confine tra il mondo terreno e quello divino è nel simbolo

(di  Giancarlo Polenghi)

 

Il saggio sull’icona “Le porte regali” di Pavel A. Florenskij ci porta al cuore del rapporto tra due mondi, quello invisibile dello Spirito, e quindi di Dio, e quello visibile del nostro mondo materiale. La domanda da cui parte l’autore è diretta: dove si trova il confine tra questi due mondi, ossia dove possiamo trovare quell’elemento che li distingue, unendoli al contempo, e che quindi permette una certa permeabilità?

Florenskij, che i suoi contemporanei definivano il “Leonardo da Vinci della Russia”, affronta il problema con sensibilità teologica e scientifica insieme, come si evince da questo brano: “In noi il velo del visibile per un istante si squarcia e attraverso di esso, mentre ancora si avverte lo squarcio, ecco, invisibile soffia un alito che non è di quaggiù: questo e l’altro mondo si aprono l’uno all’altro, e la nostra vita è sollevata da un fiotto incessante, come quando la temperatura fa salire in alto l’aria calda.”

Per lui il primo e più comune (nel senso di accessibile) passo della vita verso l’invisibile è il sogno, perché esso è un solo e medesimo evento che è concepito nelle due coscienze umane, quella notturna (nel sonno) e quella diurna (nella veglia).

La questione è certamente intrigante per chi abbia a cuore l’arte sacra che mira a produrre immagini che facciano trasparire l’invisibile e l’infinito. Raffigurare Cristo, o sua Madre, non è come ritrarre semplicemente un uomo o una donna, perché essi sono molto di più. E questa capacità è sempre nello sguardo, più che nella capacità di saper tecnicamente trasferire sulla tavola o sulla tela ciò che l’occhio vede.

Per Florenskij il sogno è allora un segno e un simbolo del trapasso dall’una all’altra sfera.

“Da dove vengono le immagini sacre?” possiamo chiederci. Certamente hanno a che fare con ciò che i nostri sensi percepiscono, con la realtà intorno a noi, e – nel caso dell’arte sacra – possono (e debbono) basarsi principalmente  sulla Sacra Scrittura, che con parole evoca eventi, storie e immagini. Tra le molte pagine della Sacra Scritture quelle più lontane dalla realtà percepibile, e le più oniriche, sono probabilmente le visioni dell’Apocalisse, una sorta di sogno simbolico icastico e misterioso.

Ma le immagini, oltre che dalle storie della Sacra Scrittura – anche da quelle più umane e quotidiane – nascono, e sono nate, anche dalle visioni dei mistici che in estasi hanno visto qualcosa che urge essere annunciato. I mistici, e i profeti, sono dei visionari che proponendo immagini ed esperienze soggettive sono percepiti sempre con sospetto da chi difende il depositum fidei (la vera dottrina) e attendono la “validazione” dell’istituzione prima di poter a pieno titolo alimentare l’immaginario collettivo.  Ma il loro contributo è potente. Pensiamo, per esempio, a come San Francesco abbia, con le sue visioni, cambiato per sempre il cristianesimo introducendo il Cristo Patients, la devozione alla croce, la via crucis, e la tenerezza di fronte alla scena della natività. San Francesco ha contribuito alla percezione umana e fisica del Cristo, imprimendo alla tradizione occidentale un impulso decisivo e duraturo.

Ma continuiamo a seguire Florenskij nel filo del suo ragionamento: se il sogno è un simbolo (ricordo che i mistici e i profeti sono spesso chiamati sognatori), di che cosa lo è? Visto dall’alto è un simbolo di quaggiù, e visto da quaggiù è un simbolo dell’alto.

“Così nella creazione artistica – afferma il nostro autore – l’anima si solleva dal mondo terreno ed entra nel mondo celeste. Lì si nutre senza immagini della contemplazione di quel mondo, tocca gli eterni noumeni delle cose e, quando se ne è impregnata, colma di conoscenza ridiscende nel mondo terreno. E giù per quella strada presso la frontiera terrena, il tesoro spirituale che ha acquistato viene investito di immagine simboliche – le stesse che, fissandosi,  formano l’opera d’arte.”

Ecco allora perché gli artisti sono tanto importanti nel cristianesimo. Non solo per via della bellezza (che pure è via per Dio), ma ben più come “sacerdoti e profeti” che aiutano il popolo di Dio ad entrare in comunione con il loro Padre celeste. San Paolo VI, infatti, diceva che la Chiesa ha urgente bisogno degli artisti.

Naturalmente Florenskij parla delle icone e della tradizione orientale, ritenendo che essa, proprio in quanto più simbolica e meno naturalistica, possa meglio penetrare (lui direbbe piuttosto far trasparire) il divino.

In effetti, a me pare, che l’arte occidentale tenti di penetrare, partendo dalla natura umana, per arrivare alla natura divina; l’arte orientale viceversa, partendo dal simbolo, cerca di far trasparire il divino trasfigurando l’umano. È come se da una parte (questo sarebbe l’approccio occidentale) incontrassimo Gesù Cristo sulle vie polverose della Palestina – magari dalle parti di Emmaus – mentre nel caso della tradizione orientale, l’incontro avvenisse sul monte Tabor, mentre rifulge in bianche vesti. Non a caso per gli “scrittori di icone” la scena della trasfigurazione ha una particolare importanza, e costituisce un grado nella preparazione dell’iconografo.

Per Florenskij i veri pittori delle icone sono i Santi Padri, perché essi hanno contemplato l’archetipo, il modello meglio di chiunque altri.

Nel contempo egli afferma che è l’esperienza spirituale che genera l’icona. Una “vera icona” dovrebbe essere sempre poggiata su quattro pilastri: 1. La parola di Dio (la Bibbia); 2. Il modello iconografico legato all’esperienza del pittore canonico (tra l’altro dice Florenskij che il canone libera le energie creative dell’artista verso nuove mete e voli creativi); 3. La tradizione praticata nei secoli e, infine 4. La personale esperienza interiore dell’artista.

Il saggio contiene anche osservazioni profonde sull’arte di Raffaello e sulla sua “ispirata” capacità di raffigurare la madre di Dio, e altre note sulla tradizione artistica protestante, che domina l’arte dell’incisione e, secondo l’autore, nasce da una teologia raziocinante e rigorosa (che però manca di cuore), mentre quella cattolica, che eccelle con la pittura ad olio, sarebbe più “spirituale” e contemplativa di quella protestante, ma rischia di essere troppo naturalistica e di diventare solo umana.

Il libro, a mio avviso, è molto interessante per capire meglio la tradizione Orientale, che viene presentata come la strada più sicura e diretta  per unire il cielo e la terra. Ma sono anche stimolanti le riflessioni sulle altre tradizioni artistiche.

Le ragioni profonde sulle “porte regali” di Florenskij, a mio avviso, possono essere fatte proprie anche da chi voglia utilizzare linguaggi differenti rispetto alle icone, perché indubbiamente il pensiero che le sottende ha solide fondamenta che vanno al di là degli stili e delle lingue particolari.

 

Pavel A. Florenskij,

Le porte regali. Saggio sull’icona

Marsilio Editori, 2018

 

Cammin facendo

di Giancarlo Polenghi

Come tutti, per decreto, sono a casa, nel giorno di sabato 14 marzo 2020. E mettermi a scrivere una recensione, in queste circostanze, è per me ragione di distensione. Mi piace scrivere, e la leggera tensione causata dallo schermo bianco del computer è compensata dalla voglia di condividere qualcosa. Anche ora che non ho l’urgenza di parlare di una “nuova” scoperta di lettura.

Infatti, a differenza del solito, invece di parlare di una recente scoperta, questa volta scelgo un libro che ho letto per la prima volta 45 anni fa, precisamente il 28 marzo del 1975.

Mi ricordo con precisione la data perché in quel giorno cadeva il venerdì santo. Avevo da poco compiuto 15 anni e, approfittando delle vacanze di Pasqua, ero andato con altri due ragazzi di poco più grandi me a fare una gita in campagna. Siamo andati in treno, partendo la mattina presto dalla stazione Centrale di Milano e cambiando forse ad Arona o a Novara (non ricordo bene). Alla fine forse abbiamo preso addirittura un autobus, poi a piedi fino a ritrovarci in campagna in un posto collinare e abbastanza selvaggio, accanto a un cascinale perlopiù diroccato che formava un quadrilatero. Arrivati lì, ci siamo seduti sul prato a consumare i nostri panini sotto un sole primaverile che metteva di buon umore. Appena finita la colazione siamo scesi da un alto della collina fino ad un ruscello e allora, seduti sulle pietre vicine all’acqua che gorgogliava, al fresco dell’ombra, ho fatto la conoscenza di Cammino, il libro più famoso di San Josemaria Escrivà. Una conoscenza a dire il vero minima, perché nei 15 minuti che abbiamo passato lì saranno stati letti un decina di punti del libro, quasi tutti dal capitolo orazione e alcuni dal capitolo carattere. Ma quei punti erano bastati per suscitare la mia curiosità, tant’è che chiesi in prestito il libro nel viaggio di ritorno e prima di addormentarmi, in camera mia, mi immersi nella lettura fino a finire il libro. Per chi non conosce questa raccolta di pensieri spirituali, il libro è fatto di brevi frasi raccolte in capitoli tematici intorno ai temi della vita spirituale cristiana e delle virtù umane. Un libro giovane, non solo perché lo lessi da giovane, ma ancor più perché l’autore lo scrisse da giovane per dei giovani.

Successivamente Cammino l’ho letto e riletto molte volte. Per me è un po’ come un ritorno alle origini.

Un libro che si legge molte volte ti scava dentro, e fa bene, come fanno bene i punti fermi, quando tutto sembra che si muova. Un punto fermo dunque, ma anche libro per camminare, utile pure ora – nei tempi del coronavirus – in cui ci viene chiesto di stare fermi, a casa.

San Josemaria Escrivà del Balaguer

Cammino

Spagna. Madrid, 1932 (1° edizione)

La santità della porta accanto

(di Giancarlo Polenghi)

 

Ho ricevuto il libro di Gaia Corrao “Solo per te Gesù” su Daniela Benedetti Spadoni, (Effatà Editrice, 2019, 84 pagine, 4 euro) da due amici di Pescia. Nel consegnarmelo il commento è stato, “ecco la santità della porta accanto di cui parla papa Francesco”. E, in effetti, è proprio così. Il libro, che si legge di fiato con tantissimo piacere, è la storia di una giovane donna nata a Borgo a Buggiano nel 1966, che si sposa all’età di 19 anni, si trasferisce a Montecatini, dove aveva studiato al locale istituto alberghiero, lavora come volontaria in una rilegatoria sociale di Massa e Cozzile, dove sono impiegate persone svantaggiate, ha due bimbi e, all’età di 28 anni, muore di tumore. Una storia che si racconta in tre righe, di una normalità disarmante, se si omette l’epilogo doloroso. Eppure è evidente che con immensa discrezione, passando inosservata, senza farsene accorgere, Daniela ha ciò non di meno tutte le caratteristiche della santità grande. Le poche cose che si sanno di lei, raccontate da chi le è stato più vicino, a partire dal marito, fanno capire che questa donna aveva (e ha anche ora) un rapporto molto intimo con Gesù Cristo. In un ritiro capisce che più che mettere in pratica gli insegnamenti di Gesù, bisogna far sì che Gesù prenda dimora dentro di noi, facendoci diventare Lui. Un pensiero profondo, da mistica, che lei ha vissuto fino in fondo. Ecco allora una vita supernormale, semplice, eppure ricca di preghiera quotidiana e di frequenza ai sacramenti, ma così, come se niente fosse, come la cosa più ovvia del mondo. Anche l’apertura agli altri, la disponibilità e l’accoglienza nella propria casa (di amici, di persone che avevano necessità momentanee, come una ragazza madre), l’interesse per le persone che incontrava, potevano apparire quelle di una ragazza come tante, magari, come qualcuno ha commentato in un primo tempo, di una ragazza fin troppo semplice, buonista e con poca personalità. Ma Daniela è tutto il contrario e ciò risulta fin troppo evidente a contatto con il dolore, che nella sua vita era un modo per unirsi a Cristo, per chiedere delle grazie. Una donna che arriva a dire che “al Signore bisogna chiedere le cose difficilissime, perché sono quello che lo “appassionano” di più, quelle dove risulta meglio la sua onnipotenza e magnanimità”. Prima di morire ha un unico desiderio per il suo funerale, che le mettano l’abito da sposa per andare incontro al suo grande amore. Nel periodo della malattia, un’autentica agonia che è durata 5 mesi, la casa di Daniela si riempie di gente attratta da qualcosa di speciale. Chi pensava di poterla consolare era consolato, mentre continuava a frequentare i sacramenti e a leggere la Bibbia (il suo solo libro di lettura) e a recitare il Rosario. Il funerale è stata una festa piena di gioia e tristezza insieme. Come quando muoiono i santi. E si ringrazia di averli conosciuti.

Gaia Corrao

Solo per te Gesù (Daniela Benedetti Spadoni)

Effatà Editrice, 2019

Mettere a fuoco i “fondamentali”

(di Giancarlo Polenghi)

 

Nel XX secolo la Russia ha prodotto un notevole pensiero che si definisce abitualmente di filosofia religiosa (Berdjaev, Bulgakov, Evdokimov, Losskij). All’origine di questa stagione feconda c’è l’opera di Vladimir Solov’ev. Secondo Hans Urs von Balthasar il lavoro di Solov’ev costituisce “la creazione speculativa più universale dell’epoca moderna … incontestabilmente la più profonda giustificazione e la più vasta filosofia di tutto il cristianesimo dei tempi nuovi”.

Lo spirito russo sembra essere particolarmente incline alle sintesi, alle visioni organiche e questo è ciò che si è andato sempre più perdendo in Occidente, dove la logica razionalistica ha sempre più stimolato l’autonomia delle scienze e una conseguente frammentazione del sapere.

Il libro I fondamenti spirituali della vita, Lipa 1988 raccoglie due brevi saggi di Solov’ev scritti rispettivamente nel 1882, il primo, e nel 1884, il secondo. Il volume è, a mio avviso, di utile lettura anche per chi non abbia interesse per la filosofia religiosa, ma che sia più sensibile ad un testo di natura spirituale, di aiuto alla preghiera, e alla riflessione cristiana.

Il primo saggio illustra i tre atteggiamenti fondamentali formulati dal libro di Tobia (12,8) ossia la preghiera, l’elemosina e il digiuno. In particolare la parte della preghiera è un commento di grande respiro e acume al Padre Nostro. Giusto per dare qualche cenno, nel testo si sottolinea l’importanza di pronunciare le prime tre invocazioni (sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà) con la consapevolezza che in noi esse dovrebbero avverarsi – per questo si chiede aiuto a Dio – , perché per Dio esse sono già adempiute e nessuno può opporvisi. Oppure l’osservazione che la richiesta del “dacci oggi il nostro pane quotidiano” risponde a un chiedere giorno per giorno, senza pretendere di avere ciò che serve per un tempo prolungato o di una garanzia per sempre, tipica dell’ansia di chi si preoccupa troppo per sé e poco del regno di Dio.

Tra le frasi che rimangono a mio avviso memorabili, “Non credere nel bene è la morte morale, ma credere se stessi come fonte del bene è follia”. “Il primo atto della fede, nella quale Dio agisce insieme con l’uomo, è la preghiera.” “Chi non prega Dio, non aiuta gli uomini e non corregge con l’astinenza la sua natura, è estraneo a qualunque religione … Questi tre fondamentali atti della religione sono così strettamente legati tra di loro che l’uno senza l’altro non ha nessuna forza.”

Il secondo saggio è pure strutturato in tre parti: il Cristianesimo (presentato attraverso un commento del prologo del vangelo di San Giovanni apostolo); la Chiesa e, per finire, lo Stato e la Società cristiani.

Di grande forza ed efficacia il capitolo sulla Chiesa che meriterebbe di essere letto e riletto con i suoi riferimenti alla comunione, con la divinoumanità di Cristo, e tra gli uomini, membra del corpo mistico. Illuminante anche l’ultimo capitolo in cui si afferma, tra le altre cose, che “tra la persona e la società esiste una reciproca dipendenza” e che per questa ragione “per rigenerare l’umanità, il cristianesimo deve penetrare non solo i suoi elementi personali, ma anche quelli sociali”.

Vladimir Solov’ev

I fondamenti spirituali della vita, Lipa 1988

Picasso e l’arte moderna, secondo Bulgakov e Berdjaev

(di Giancarlo Polenghi)

Nel 1915, a seguito di una visita alla galleria Scukin di Mosca, il giovane Sergej Bulgakov pubblica un saggio intitolato Il cadavere della bellezza, dedicato alle opere di Picasso che vi aveva visto esposte. Bulgakov, all’epoca in cui scrisse il saggio, era passato dall’ateismo marxista al cristianesimo ortodosso. Poi sarebbe diventato sacerdote e teologo. Nella sua conversione un ruolo particolare lo ebbe la Madonna Sistina di Raffaello (ora a Dresda, allora a Mosca) che a suo dire poteva essere considerata come un’icona occidentale, ossia un’immagine in cui la Vergine e il bambino, si manifestano e interpellano l’osservatore.

Ciò che colpisce nella lettura che Bulgakov fa di Picasso è la schiettezza, l’ammirazione ma anche un giudizio tra i più critici che si possano immaginare, di empietà e satanismo. Un altro saggio di pochi anni successivo (1918), del filosofo personalista russo Nikolaj A. Berdjaev, si intitola La crisi dell’arte e pur essendo di diverso tenore, mette a fuoco le avanguardie del periodo (il futurismo italiano soprattutto), con analoga forza, senza risparmiare parole dure come smaterializzazazione, disincarnazione della pittura,… passaggio dai corpi materiali ai corpi psichiciun mondo che si smaterializza e penetra nell’uomo, e l’uomo che ha perduto la sua stabilità spirituale, si dissolve in un mondo materiale liquefatto,… la crisi dell’arte che rappresenta la crisi della vita,… rottura definitiva e irreversibile con ogni classicismo. È curioso che molto prima di Bauman e di altri sociologi, Berdjaev parli profeticamente di mondo liquefatto.

I due saggi pubblicati insieme, e arricchiti da una postfazione di Marco Vallora (Sergej Bulgakov – Nikolaj A. Berdjaev, Il cadavere della bellezza/ La crisi dell’arte, Edizioni Medusa 2012, 13 euro) sono di grande stimolo per chi sia interessato al pensiero personalista russo.

Per Bulgakov le opere di Pablo Picasso che aveva visto da Scukin – e che occupavano un’intera sala – (tra le altre Donna con ventaglio; 1908, Dryad 1908, La regina Isabella 1909, Vecchio cieco e ragazzo, 1903, La bevitrice di assenzio 1902,), appartenenti al periodo cubista e a quello immediatamente precedente, creano un’atmosfera di mistica paura, che raggiunge il terrore. L’arte di Picasso, prosegue Bulgakov, anche se non può essere chiamata religiosa, è sicuramente la pittura del mistero e in qualche modo richiama l’icona. Per il teologo russo ciò che più è grave nell’arte dello spagnolo è la deformazione del femminile, ossia di ciò che è simbolo della generazione e della maternità. Specificamente riguardo le opere cubiste, afferma: l’opera di Picasso è il frutto di una possessione demoniaca. Da una parte il suo giudizio riconosce la grandezza dell’artista (dopo aver visto le opere di Picasso tutte le altre stanze – di artisti francesi dello stesso periodo – perdono d’interesse), dall’altra l’accusa è ferma: Picasso è il polo opposto all’Angelico, il primo presenta una bellezza mostruosa ispirate dalle forze del male, il secondo segue le forze del bene e l’umiltà. Secondo Bulgakov Picasso è terrorizzante perché è demoniacamente genuino e la sua arte risuona con quella dei personaggi più cupi di Dostoevskij (per esempio in Memorie dal sottosuolo). Un’arte che egli definisce come il cadavere della bellezza, un’arte disperata e mostruosa, ancorché onesta e per questo ancora più pericolosa. D’altra parte, alla fine del saggio, si difende (o se vogliamo si giustifica) anche quest’arte magica (Picasso era in effetti interessato all’arte dell’africa nera con i suoi riti e credenze) che come le chimères poste all’esterno di Notre Dame a Parigi, hanno un loro ruolo mistico – fuori della chiesa –. Per il teologo russo i dipinti di Picasso sono altrettante chimères sul tempio spirituale della modernità. È impossibile immaginare queste cose malefiche all’interno della cattedrale; vien da pensare che se i dipinti di Picasso fossero portati in una chiesa, essi sarebbero immediatamente bruciati e ridotti in cenere, come le chimères; eppure in virtù di qualche attrazione misteriosa questi spiriti immondi stanno sul tetto di una chiesa. È sorprendente anche che così tanti motivi nell’arte di Picasso risalgano agli idoli africani che i suoi antenati (Picasso secondo Bulgakov è metà spagnolo, metà francese, e metà moresco) possono aver adorato, perciò le sue chimere sono ieratiche nella loro stessa derivazione.

Alla fine del saggio un’altra domanda interessante ed enigmatica, Bulgakov si chiede: il maestoso portale della cattedrale di Parigi fu opera dello stesse architetto che creò le chimere o furono due uomini diversi? E conclude – come per dare spazio ad un Picasso che sappia anche fare altro –: la storia non ce lo dice…

Sergej Bulgakov – Nikolaj A. Berdjaev

Il cadavere della bellezza. La crisi dell’arte

Edizioni Medusa 2012, 13 euro