Articoli

Il confine tra il mondo terreno e quello divino è nel simbolo

(di  Giancarlo Polenghi)

 

Il saggio sull’icona “Le porte regali” di Pavel A. Florenskij ci porta al cuore del rapporto tra due mondi, quello invisibile dello Spirito, e quindi di Dio, e quello visibile del nostro mondo materiale. La domanda da cui parte l’autore è diretta: dove si trova il confine tra questi due mondi, ossia dove possiamo trovare quell’elemento che li distingue, unendoli al contempo, e che quindi permette una certa permeabilità?

Florenskij, che i suoi contemporanei definivano il “Leonardo da Vinci della Russia”, affronta il problema con sensibilità teologica e scientifica insieme, come si evince da questo brano: “In noi il velo del visibile per un istante si squarcia e attraverso di esso, mentre ancora si avverte lo squarcio, ecco, invisibile soffia un alito che non è di quaggiù: questo e l’altro mondo si aprono l’uno all’altro, e la nostra vita è sollevata da un fiotto incessante, come quando la temperatura fa salire in alto l’aria calda.”

Per lui il primo e più comune (nel senso di accessibile) passo della vita verso l’invisibile è il sogno, perché esso è un solo e medesimo evento che è concepito nelle due coscienze umane, quella notturna (nel sonno) e quella diurna (nella veglia).

La questione è certamente intrigante per chi abbia a cuore l’arte sacra che mira a produrre immagini che facciano trasparire l’invisibile e l’infinito. Raffigurare Cristo, o sua Madre, non è come ritrarre semplicemente un uomo o una donna, perché essi sono molto di più. E questa capacità è sempre nello sguardo, più che nella capacità di saper tecnicamente trasferire sulla tavola o sulla tela ciò che l’occhio vede.

Per Florenskij il sogno è allora un segno e un simbolo del trapasso dall’una all’altra sfera.

“Da dove vengono le immagini sacre?” possiamo chiederci. Certamente hanno a che fare con ciò che i nostri sensi percepiscono, con la realtà intorno a noi, e – nel caso dell’arte sacra – possono (e debbono) basarsi principalmente  sulla Sacra Scrittura, che con parole evoca eventi, storie e immagini. Tra le molte pagine della Sacra Scritture quelle più lontane dalla realtà percepibile, e le più oniriche, sono probabilmente le visioni dell’Apocalisse, una sorta di sogno simbolico icastico e misterioso.

Ma le immagini, oltre che dalle storie della Sacra Scrittura – anche da quelle più umane e quotidiane – nascono, e sono nate, anche dalle visioni dei mistici che in estasi hanno visto qualcosa che urge essere annunciato. I mistici, e i profeti, sono dei visionari che proponendo immagini ed esperienze soggettive sono percepiti sempre con sospetto da chi difende il depositum fidei (la vera dottrina) e attendono la “validazione” dell’istituzione prima di poter a pieno titolo alimentare l’immaginario collettivo.  Ma il loro contributo è potente. Pensiamo, per esempio, a come San Francesco abbia, con le sue visioni, cambiato per sempre il cristianesimo introducendo il Cristo Patients, la devozione alla croce, la via crucis, e la tenerezza di fronte alla scena della natività. San Francesco ha contribuito alla percezione umana e fisica del Cristo, imprimendo alla tradizione occidentale un impulso decisivo e duraturo.

Ma continuiamo a seguire Florenskij nel filo del suo ragionamento: se il sogno è un simbolo (ricordo che i mistici e i profeti sono spesso chiamati sognatori), di che cosa lo è? Visto dall’alto è un simbolo di quaggiù, e visto da quaggiù è un simbolo dell’alto.

“Così nella creazione artistica – afferma il nostro autore – l’anima si solleva dal mondo terreno ed entra nel mondo celeste. Lì si nutre senza immagini della contemplazione di quel mondo, tocca gli eterni noumeni delle cose e, quando se ne è impregnata, colma di conoscenza ridiscende nel mondo terreno. E giù per quella strada presso la frontiera terrena, il tesoro spirituale che ha acquistato viene investito di immagine simboliche – le stesse che, fissandosi,  formano l’opera d’arte.”

Ecco allora perché gli artisti sono tanto importanti nel cristianesimo. Non solo per via della bellezza (che pure è via per Dio), ma ben più come “sacerdoti e profeti” che aiutano il popolo di Dio ad entrare in comunione con il loro Padre celeste. San Paolo VI, infatti, diceva che la Chiesa ha urgente bisogno degli artisti.

Naturalmente Florenskij parla delle icone e della tradizione orientale, ritenendo che essa, proprio in quanto più simbolica e meno naturalistica, possa meglio penetrare (lui direbbe piuttosto far trasparire) il divino.

In effetti, a me pare, che l’arte occidentale tenti di penetrare, partendo dalla natura umana, per arrivare alla natura divina; l’arte orientale viceversa, partendo dal simbolo, cerca di far trasparire il divino trasfigurando l’umano. È come se da una parte (questo sarebbe l’approccio occidentale) incontrassimo Gesù Cristo sulle vie polverose della Palestina – magari dalle parti di Emmaus – mentre nel caso della tradizione orientale, l’incontro avvenisse sul monte Tabor, mentre rifulge in bianche vesti. Non a caso per gli “scrittori di icone” la scena della trasfigurazione ha una particolare importanza, e costituisce un grado nella preparazione dell’iconografo.

Per Florenskij i veri pittori delle icone sono i Santi Padri, perché essi hanno contemplato l’archetipo, il modello meglio di chiunque altri.

Nel contempo egli afferma che è l’esperienza spirituale che genera l’icona. Una “vera icona” dovrebbe essere sempre poggiata su quattro pilastri: 1. La parola di Dio (la Bibbia); 2. Il modello iconografico legato all’esperienza del pittore canonico (tra l’altro dice Florenskij che il canone libera le energie creative dell’artista verso nuove mete e voli creativi); 3. La tradizione praticata nei secoli e, infine 4. La personale esperienza interiore dell’artista.

Il saggio contiene anche osservazioni profonde sull’arte di Raffaello e sulla sua “ispirata” capacità di raffigurare la madre di Dio, e altre note sulla tradizione artistica protestante, che domina l’arte dell’incisione e, secondo l’autore, nasce da una teologia raziocinante e rigorosa (che però manca di cuore), mentre quella cattolica, che eccelle con la pittura ad olio, sarebbe più “spirituale” e contemplativa di quella protestante, ma rischia di essere troppo naturalistica e di diventare solo umana.

Il libro, a mio avviso, è molto interessante per capire meglio la tradizione Orientale, che viene presentata come la strada più sicura e diretta  per unire il cielo e la terra. Ma sono anche stimolanti le riflessioni sulle altre tradizioni artistiche.

Le ragioni profonde sulle “porte regali” di Florenskij, a mio avviso, possono essere fatte proprie anche da chi voglia utilizzare linguaggi differenti rispetto alle icone, perché indubbiamente il pensiero che le sottende ha solide fondamenta che vanno al di là degli stili e delle lingue particolari.

 

Pavel A. Florenskij,

Le porte regali. Saggio sull’icona

Marsilio Editori, 2018

 

Picasso e l’arte moderna, secondo Bulgakov e Berdjaev

(di Giancarlo Polenghi)

Nel 1915, a seguito di una visita alla galleria Scukin di Mosca, il giovane Sergej Bulgakov pubblica un saggio intitolato Il cadavere della bellezza, dedicato alle opere di Picasso che vi aveva visto esposte. Bulgakov, all’epoca in cui scrisse il saggio, era passato dall’ateismo marxista al cristianesimo ortodosso. Poi sarebbe diventato sacerdote e teologo. Nella sua conversione un ruolo particolare lo ebbe la Madonna Sistina di Raffaello (ora a Dresda, allora a Mosca) che a suo dire poteva essere considerata come un’icona occidentale, ossia un’immagine in cui la Vergine e il bambino, si manifestano e interpellano l’osservatore.

Ciò che colpisce nella lettura che Bulgakov fa di Picasso è la schiettezza, l’ammirazione ma anche un giudizio tra i più critici che si possano immaginare, di empietà e satanismo. Un altro saggio di pochi anni successivo (1918), del filosofo personalista russo Nikolaj A. Berdjaev, si intitola La crisi dell’arte e pur essendo di diverso tenore, mette a fuoco le avanguardie del periodo (il futurismo italiano soprattutto), con analoga forza, senza risparmiare parole dure come smaterializzazazione, disincarnazione della pittura,… passaggio dai corpi materiali ai corpi psichiciun mondo che si smaterializza e penetra nell’uomo, e l’uomo che ha perduto la sua stabilità spirituale, si dissolve in un mondo materiale liquefatto,… la crisi dell’arte che rappresenta la crisi della vita,… rottura definitiva e irreversibile con ogni classicismo. È curioso che molto prima di Bauman e di altri sociologi, Berdjaev parli profeticamente di mondo liquefatto.

I due saggi pubblicati insieme, e arricchiti da una postfazione di Marco Vallora (Sergej Bulgakov – Nikolaj A. Berdjaev, Il cadavere della bellezza/ La crisi dell’arte, Edizioni Medusa 2012, 13 euro) sono di grande stimolo per chi sia interessato al pensiero personalista russo.

Per Bulgakov le opere di Pablo Picasso che aveva visto da Scukin – e che occupavano un’intera sala – (tra le altre Donna con ventaglio; 1908, Dryad 1908, La regina Isabella 1909, Vecchio cieco e ragazzo, 1903, La bevitrice di assenzio 1902,), appartenenti al periodo cubista e a quello immediatamente precedente, creano un’atmosfera di mistica paura, che raggiunge il terrore. L’arte di Picasso, prosegue Bulgakov, anche se non può essere chiamata religiosa, è sicuramente la pittura del mistero e in qualche modo richiama l’icona. Per il teologo russo ciò che più è grave nell’arte dello spagnolo è la deformazione del femminile, ossia di ciò che è simbolo della generazione e della maternità. Specificamente riguardo le opere cubiste, afferma: l’opera di Picasso è il frutto di una possessione demoniaca. Da una parte il suo giudizio riconosce la grandezza dell’artista (dopo aver visto le opere di Picasso tutte le altre stanze – di artisti francesi dello stesso periodo – perdono d’interesse), dall’altra l’accusa è ferma: Picasso è il polo opposto all’Angelico, il primo presenta una bellezza mostruosa ispirate dalle forze del male, il secondo segue le forze del bene e l’umiltà. Secondo Bulgakov Picasso è terrorizzante perché è demoniacamente genuino e la sua arte risuona con quella dei personaggi più cupi di Dostoevskij (per esempio in Memorie dal sottosuolo). Un’arte che egli definisce come il cadavere della bellezza, un’arte disperata e mostruosa, ancorché onesta e per questo ancora più pericolosa. D’altra parte, alla fine del saggio, si difende (o se vogliamo si giustifica) anche quest’arte magica (Picasso era in effetti interessato all’arte dell’africa nera con i suoi riti e credenze) che come le chimères poste all’esterno di Notre Dame a Parigi, hanno un loro ruolo mistico – fuori della chiesa –. Per il teologo russo i dipinti di Picasso sono altrettante chimères sul tempio spirituale della modernità. È impossibile immaginare queste cose malefiche all’interno della cattedrale; vien da pensare che se i dipinti di Picasso fossero portati in una chiesa, essi sarebbero immediatamente bruciati e ridotti in cenere, come le chimères; eppure in virtù di qualche attrazione misteriosa questi spiriti immondi stanno sul tetto di una chiesa. È sorprendente anche che così tanti motivi nell’arte di Picasso risalgano agli idoli africani che i suoi antenati (Picasso secondo Bulgakov è metà spagnolo, metà francese, e metà moresco) possono aver adorato, perciò le sue chimere sono ieratiche nella loro stessa derivazione.

Alla fine del saggio un’altra domanda interessante ed enigmatica, Bulgakov si chiede: il maestoso portale della cattedrale di Parigi fu opera dello stesse architetto che creò le chimere o furono due uomini diversi? E conclude – come per dare spazio ad un Picasso che sappia anche fare altro –: la storia non ce lo dice…

Sergej Bulgakov – Nikolaj A. Berdjaev

Il cadavere della bellezza. La crisi dell’arte

Edizioni Medusa 2012, 13 euro

 

Conoscere nella relazione: l’artista è profeta di bellezza

(di Giancarlo Polenghi)

Ciò che mi ha spinto alla lettura del libro di Michelina Tenace (La bellezza, unità spirituale, Lipa 1994, 20 euro) è stato, in un primo momento, il titolo, che annunciava il tema della bellezza e dell’arte in chiave comunionale. Un tema che non sospettavo sarebbe stato svolto con taglio monografico presentando e indagando il pensiero estetico di Vladimir Sergeevič Solov’ëv. 

Non avendo dimestichezza con questo originale pensatore russo di fine Ottocento, ma avendolo sentito citare spesso sia dal teologo artista Marko Ivan Rupnik, che dal suo maestro Spidlik, la curiosità è aumentata nel corso della lettura.

Il lavoro di analisi dell’estetica di Solov’ëv della Tenace è prezioso perché calandolo nel peculiare contesto culturale dal quale è sorto, mettendo in luce il significato preciso di alcuni termini ambigui, coglie e “traduce”, per il lettore occidentale, l’originalità e la forza di un pensiero che unisce, al massimo livello, la fede cristiana, l’arte, e la redenzione del mondo.

Senza la pretesa di alcuna sistematicità, per la quale rimando ovviamente alla lettura libro, elenco di seguito alcuni dei concetti che maggiormente mi hanno colpito. 

La conoscenza per Solov’ëv non tocca solo la ragione perché necessita anche dell’intuizione, della visione e soprattutto della relazione. Egli afferma che tutte le facoltà dell’uomo (pensiero, sentimento, visione estetica, l’amore del cuore, la coscienza e il desiderio disinteressato di trovare la verità) devono unirsi per trovare ciò che è degno di essere chiamato verità. Quindi bisogna cercare “costantemente nel fondo della propria anima la radice interiore della comprensione, dove tutte le facoltà separate si riuniscono nella totalità viva di una visione spirituale”. Per questo, al di fuori dell’amore la conoscenza è impossibile, perché solo l’amore unisce il soggetto che conosce con l’oggetto conosciuto. Questo approccio, fa notare la Tenace, non squalifica le ragioni del razionalismo e dell’oggettività, ma le integra in una visione più equilibrata. A Solov’ëv, che entra in polemica con i positivisti del suo tempo, interessa una conoscenza che sia legata alla vita, e quindi critica la conoscenza astratta che sia esclusivamente teorica. L’ideale che lo anima è l’unione delle scienze positive con la religione e la filosofia. Insomma a lui interessa restaurare “l’unità interiore” per vivere la sapienza, e, in questa ricerca, la bellezza avrà un luogo centralissimo. 

Il primo passo sarà di unire la conoscenza corporale, psichica e spirituale. Ma a questa unità si dovrà aggiungere anche quella tra le storie individuali e quelle collettive, della storia e delle nazioni, per finire con una visione escatologica omnicomprensiva. 

La creatività per Solov’ëv ha due fondamenti, quello soggettivo del sentimento e quello oggettivo della bellezza. Per lui la forma perfetta della bellezza, e dell’arte, è la mistica (intesa come relazione tra creatura e Creatore) perché unisce la vita personale, anche sensibile, con la grazia di Dio che trasforma e divinizza.  La bellezza nella natura, dalla quale il nostro autore parte, ci permette di capire meglio: in essa la luce funziona come la grazia, e la materia come la vita umana. Il diamante è bello (materia illuminata) perché la materia colpita dalla luce rifulge e trasfigura, così nella vita dei veri artisti (luce incarnata), la vita divina trasforma quella umana, e anche nelle loro opere essa trasforma la materia salvandola e portandola al suo compimento.  Allora l’uomo, nell’arte, continua l’opera di incarnazione dell’idea cominciata nella natura da Dio e la porta al suo destino ultimo. La liturgia logicamente, e coerentemente con questa visione, diventa il luogo dell’arte per eccellenza. 

Solov’ëv critica due posizioni opposte dell’estetica moderna, l’arte per l’arte – ossia l’arte che non ha legame con nulla – che a suo avviso diventa un “puro gioco”, e l’arte utilitarista, che pure si accontenta di poco (funzioni d’uso, decorazione) perché a suo avviso l’arte è sì utile ma al massimo livello, ovvero per redimere il mondo. Infatti, per lui, l’arte e la religione appartengono allo steso livello di profondità. Per questo l’artista è un profeta ispirato che con il suo lavoro rivela il significato delle cose, le trasforma e le riporta a Dio.  

Michelina Tenace

La bellezza, unità spirituale

Lipa 1994

La morte, ultimo tabù, tra orrore e speranza cristiana

(di Giancarlo Polenghi)

 

Nessuno vuol sentir parlare di morte perché averla di fronte è angosciante.

Secondo quanto mi spiegava anni fa un geriatra, anche chi per professione ha a che fare con essa, elabora strategie precise per affrontarla come in un rituale, facendo una serie di operazioni previste e quasi automatiche (le manovre e i controlli che permettono di stabilire il decesso avvenuto), per poi lasciare, appena possibile, la scena che manifesta la sua presenza, e rimuoverne il pensiero dalla propria testa.

Pensare alla morte (soprattutto alla propria) è insostenibile. E oggi ancor più che in passato. Lo si vede nel linguaggio, nelle abitudini, nella scaramanzia pagana. Nella sistematica e decisa rimozione. Ma essa, la morte, per quanto la si voglia negare, si presenta quando meno te lo aspetti e comunque con un’ineluttabilità totale.

Parrebbe ignori chi la vorrebbe incontrare e, di contro, appare di sorpresa a chi non ci pensava affatto.

Chi la vede, in sé o in altri, ha paura, terrore. Ecco perché stare accanto a un moribondo è inaudito. Le suore di Madre Tersa di Calcutta invece fanno a gara per accompagnare i moribondi (tra i malati di AIDS, negli slum delle periferie). Non sono le sole, ma di certo non trovano facili emuli, almeno in termini di passione specifica. Noi comuni mortali (ossia tutti o quasi), se possiamo, evitiamo. Anche quando si tratta della morte di cari e famigliari (e forse proprio per questo) la faccenda diventa complessa: alcuni fuggono, altri si fanno presenti, ma non per questo il compito diventa meno oneroso e sopportabile.

Il contatto con la morte, se c’è, non lascia indifferenti. “Chi muore giace, chi vive si dà pace”, certo, ma come e con quali strategie? E comunque, è sempre stato così? Il rapporto con la morte, nel tempo e nella storia, come si è evoluto (o involuto)?  E oggi, a che punto siamo?

Si potrebbe affermare che tanto più una società (o il singolo individuo) rimuove dalla sua prospettiva il pensiero della morte, e tanto più si allontana dal pensiero cristiano che con essa ha a che fare in modo radicale.

Non tanto perché il cristianesimo ami la morte, tutto il contrario, ma perché la strategia di sconfitta della morte nel cristianesimo passa dalla morte stessa, come dimostra la sua immagine simbolo, quella del crocifisso, ossia quella di un morto ammazzato, che così ha distrutto la morte, sottomettendosi ad essa.

Quest’ultima affermazione, ossia la crucialità della morte per il cristianesimo, può essere detta con maggiore fondamento leggendo La morte dipinta, arte e teologia delle cose ultime, (Gianni Cioli, Edizioni Dehoniane Bologna 2015). Il libro è un saggio di storia dell’arte che attraverso sei opere toscane databili tra l’inizio del tredicesimo secolo e la metà del quindicesimo, ci conducono a scoprire la forza e l’efficacia del pensiero cristiano sulla morte.

I mosaici del Battistero di Firenze, i pilastri del Duomo di Orvieto, l’Allegoria della Redenzione di Siena, attribuita ad Ambrogio Lorenzetti, l’Incontro dei tre vivi e dei tre morti, nel dittico di Bernardo Datti alla Galleria dell’Accademia a Firenze, la Vergine dell’Apocalisse di Giovanni del Biondo, nella Pinacoteca Vaticana, e la famosissima Trinità di Masaccio in Santa Maria Novella a Firenze, costituiscono un percorso eloquente di contemplazione del significato della morte in chiave cristiana.

Dipingere la morte significa ripercorre l’inizio della storia dell’umanità (il peccato di Adamo ed Eva introduce la morte), il punto focale e risolutivo della croce (trionfo della morte e insieme sua sconfitta, con la susseguente risurrezione) e la fine (il giudizio al termine del tempo, dove la morte scompare, e la vita splende nella beatitudine o nelle sofferenze eterne).

 

Altri temi sono:

  • il seno di Abramo, Isacco e Giacobbe, come figura del paradiso,
  • il timore e la speranza (si potrebbe dire l’incertezza e la possibilità di esiti differenti),
  • il peccato come origine e fondamento della morte (un peccato con cui comunque bisogna fare i conti),
  • la necessità di morire per risorgere (il seme piantato, il tralcio potato, il battesimo come tomba da cui rinascere risorti in Cristo),
  • il gusto per il macabro (più o meno spinto), e della morte transi (ossia della decomposizione dei cadaveri), come ricorso argomentativo, allegorico, retorico e mnemonico di potente efficacia,
  • il desiderio della buona morte nei santi, che fa da contrappunto alla disperazione della morte per i senza Dio.

Il saggio di Cioli, che si presenta soprattutto come un testo scientifico di storia dell’arte, va molto al di là del genere specifico, suggerendo percorsi di riflessione di rara profondità. Per esempio, aiuta chi è davanti ad un crocifisso, a vederne le implicazioni radicali relative al tema della morte e della vita, evitando la trappola così comune di una lettura edulcorata e priva di dramma (come direbbe von Balthasar).

Gianni Cioli

La morte dipinta, arte e teologia delle cose ultime.

Edizioni Dehoniane Bologna 2015

 

Da Lucca in giro per il mondo. Un appassionato compositore musicale alla scoperta della Bellezza.

Federico racconta della sua esperienza professionale in giro per il mondo e di come si sia sempre sentito a casa in un centro dell’Opera

 

Mi chiamo Federico ed ho sempre voluto essere un compositore di musica contemporanea e per realizzare questo ho cambiato vari Stati alla ricerca del tipo di istruzione e delle occasioni migliori. Soprattutto, andando avanti negli anni, sento l’urgenza d’impiegare bene il tempo, che è di Dio, per capire dove posso trovare occasioni che rendano di più e scuole in cui la mia preparazione possa migliorare. Tutto questo mi sembra un buon uso del tempo.

La prima volta che misi piede in un centro dell’Opera fu nell’autunno del 1997. Marco, un ragazzo che era nella mia stessa classe al liceo, mi invitò ad un ritiro spirituale a Firenze. Andammo in treno da Lucca ed alla stazione Santa Maria Novella venne a prenderci un giovane che si chiamava Luca. Partimmo a bordo di una Uno bianca imboccando però un senso contrario in una via. La polizia ci fermò e ci fece una multa. Dopo questo inizio, per certi versi teatrale, arrivammo al centro: era un elegante appartamento in via Fossombroni. Io avevo frequentato sempre la vita della mia parrocchia ma fino a quel momento non sapevo niente dell’Opus Dei e quel primo ritiro mensile per liceali fu un’esperienza che mi segnò. Quello che avevo sentito nella meditazione mi rimase nella mente per molti giorni e fu fonte di riflessioni nelle settimane successive. Dopo questo primo incontro con i mezzi di formazione, ne ho frequentati molti, in varie parti del mondo. Fin da subito, ma specialmente dal 2007, anno in cui ho chiesto l’ammissione, entrare in un centro, in qualsiasi parte del mondo, significava e significa sempre di più per me entrare nella mia casa. Infatti l’atmosfera che ho respirato fin da subito è “quella di casa”: come se vivessi lì da sempre, anche se magari è la prima volta che ci entro. Questa sensazione mi ha accompagnato costantemente, specialmente negli ultimi anni avendo vissuto in Argentina, in Gran Bretagna e negli Stati Uniti.

Nel 2012 mi trasferii a Buenos Aires. Mi fu detto di recarmi al CUDES per ricevere la formazione spirituale. Avevo contattato Lukas via email e mi aveva dato l’indirizzo dove recarmi. Arrivato alla stazione di Costitucion, però, sbagliai autobus ed il mio viaggio si trasformò in un mezzo giro turistico. Alla fine arrivai. Appena entrato nello splendido oratorio mi affidai alla Nostra Signora di Lujan. Ero un po’ teso perché il mio castillano era alle prime armi. Ad un certo punto si presenta un ragazzo che, dopo alcune domande, mi mostra la stanza del sacerdote. Avevo chiesto se era possibile confessarsi in italiano e mi fu risposto “ti costerà parecchio denaro”. Il sacerdote lo disse con tono serio. Restai a dir poco sorpreso perché credevo fosse vero: il mio viso era eloquente. Dopo tre interminabili secondi, a dir poco imbarazzanti, scoppiò in una risata, dandomi una pacca sulla spalla, ed anche io cominciai a ridere…diventammo molto amici e ci siamo rivisti fino alla mia partenza per l’Inghilterra.

Nel 2013 mi trasferii a Londra per fare un master in composizione al King’s College London. Anche in questo caso ho conosciuto tante persone con le quali sono diventato molto amico. In particolare un architetto, nel centro che frequentavo – Rutland – che era molto interessato ai rapporti fra architettura e musica. Ricordo ancora le nostre discussioni nel salottino il sabato pomeriggio, prima del circolo. Quello è stato per me l’inizio di un altro modo di vedere la musicologia. Capii che da una visione interdisciplinare potevano venire fuori molte cose interessanti; che era possibile connettere campi diversi e che questo mi avrebbe permesso di relazionarmi con esperti di altri settori coi quali sarebbe stato possibile diventare amico. Così è stato. Architetti, letterati, scienziati: sono molte le persone che ho conosciuto e con le quali ho condiviso idee. Ed ho anche avvicinato un pò alla musica contemporanea. In particolare le lunghe passeggiate lungo il Tamigi con un caro amico chimico, Gustavo, nelle quali parlavamo di tutto: dalla nostra vocazione alla relazione fra scienza e musica.

Dopo Londra, nel 2016, mi sono trasferito a New York. Anche in questo caso è avvenuto lo stesso: dopo pochi giorni ho cominciato a conoscere persone dell’Opera. Restai sorpreso, all’inizio, quando mi dissero che il mio circolo* sarebbe stato alle 7:10 del mattino. Non avevo mai fatto circoli così presto al mattino, inoltre dovevo partire verso le 6:00 da dove abitavo. All’inizio fu un sacrificio, ma poi è diventato molto naturale, anzi ho assaporato come è bello cominciare la giornata in famiglia col circolo: è stata una gioia immensa che non mi aspettavo minimamente. La convivenza per giovani soprannumerari dello scorso anno ha aggiunto un gran numero di amici. Persone che venivano da altri stati degli Stati Uniti, con esperienze diversissime, come quella di un ragazzo, appena tornato dal viaggio di nozze in Italia, passando da Barga, una città vicina a Lucca, la mia città, vicinissima al paese di origine dei miei genitori. Mi colpì, perché i suoi parenti erano originari di quelle parti e non mi sarei mai immaginato di trovare un discendente barghigiano a New York!

Diversi stati, diverse città nelle quali ho sempre sentito l’universalità dell’Opera, il suo essere famiglia in tutto il mondo. E’ bello quando sei fuori casa sentire il calore di persone che si interessano a te ed a quello che fai con naturalezza ma anche con sincerità. Spiegando il mio lavoro, dico sempre che in realtà per me scrivere musica è un modo per parlare con Dio. Non avrei mai creduto che avrei potuto farlo scrivendo note sul pentagramma. In realtà il nostro scopo come artisti, è mostrare a tutti l’estrema attualità della Bellezza, esprimendola oggi con un linguaggio contemporaneo, in pittura, musica e in tutte le altre arti. Quello che facciamo, noi artisti, è mostrare che il processo della creazione è sempre in atto, e si esplica oggi in nuove forme. Ovviamente questo presuppone un atteggiamento di ascolto da parte delle persone, cosa resa difficile oggi dalla dittatura del rumore. Accostarsi alle opere d’arte fatte oggi, come a quelle scritte nei decenni e nei secoli precedenti, è un modo per contemplare un riflesso della Bellezza.

Federico

* nota: il circolo è una riunione formativa settimanale

Il Piccolo Michelangelo

Il Giovane Michelangelo è per ragazzi (in gamba) dei primi anni delle scuole superiori.

Le attività si svolgono ogni venerdì pomeriggio dalle 15.00 alle 19.00 all’Accademia dei Ponti.

Gli ingredienti del pomeriggio sono: studio intelligente, arte, amicizia e divertimento.

Pomeriggio tipo

15.00 I ora studio

16.05 II ora studio + personal training

17.00 merenda

17.30 arte: disegno e scultura (2 volte al mese)

19.00 fine attività

Staff

Enrico Rialti – responsabile didattico

Dony MacManus – maestro d’arte

Marco Ridella – responsabile training

Personal trainers: Luca Bernardi, Ramon Romano

Quota iscrizione

200,00 €

Personal training

Ogni venerdì è previsto lo studio guidato: 

2 ore di studio e 15 minuti di orientamento individuale, in cui confrontarsi con il proprio personal trainer sulle tecniche di studio e chiarirsi i dubbi sulle singole materie.

Tattica

In quattro incontri tutte le indicazioni pratiche e gli strumenti per organizzare il proprio metodo di studio: gestione del tempo, compresnsione del testo, preparazione dell’interrogazione, gli appunti e molte altre risorse per diventare i primi della classe.

Il calendario

I. Metodo di studio: ma io che studente sono?

Venerdì 7 ottobre dalle 15 alle 17

II. Strumenti e strategie di studio.

Venerdì 21 ottobre dalle 15 alle 17

III. Pianificazione e produzione del testo.

Venerdì 4 novembre dalle 15 alle 17

IV. Metodo di studio: domande e risposte.

Venerdì 18 novembre dalle 15 alle 17

Arte: disegno e scultura

Due volte al mese, dopo lo studio (17.30-19.00), laboratorio di arte con l’artista Dony MacManus.

Il corso 2011/2012 comprende lo studio della composizione, le tecniche di disegno e di scultura, i materiali, i colori.