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I nostri beni relazionali

(di Giancarlo Polenghi)

L’ultimo saggio di Pierpaolo Donati (Scoprire i beni relazionali, Rubettino 2019)

è un libro che, a partire dal concetto di bene relazionale, approfondisce, chiarisce e illustra le ricerche di oltre 40 anni sulla relazione come sorgente della socialità, dell’identità personale e, in ultima analisi, della vita propriamente umana (la vita buona).

La tesi del sociologico bolognese è che siano le relazioni, intese come realtà sui generis (ossia realtà emergenti, con una natura propria che non può essere ridotta alle interazioni tra le persone o alle strutture sociali), a produrre i beni o mali relazionali che rendono la vita felice o, al contrario, disgraziata.

Il libro può risultare ostico per chi non abbia consuetudine con il vocabolario sociologico, ma la sua lettura è stimolante e illuminante per meglio capire i tempi che viviamo e il suo specifico malessere.

Da una parte c’è l’intuizione che l’umano sia generato nelle e dalle relazioni, dall’altra si mostra come la cultura e l’organizzazione sociale del mondo occidentale, regolata dall’economia di mercato e dallo Stato assistenziale, fanno male alle relazioni, le combattono, le  insidiano e marginalizzano. La crisi odierna (della famiglia, della scuola, della società) non si spiega solo con la mancanza di impegno e di qualità (virtù) o di opzioni valoriali perché è frutto anche, e forse soprattutto, del contesto in cui siamo immersi.

Capire che cosa siano le relazioni e come esse siano in grado di produrre beni essenziali per la vita, non ottenibili altrimenti, è di estrema importanza. Il testo distingue i beni privati (che sono competitivi, ossia personali ed escludenti) da quelli pubblici (non competitivi e forzatamente a disposizione di tutti) e da quelli relazionali. Questi ultimi consistono nel fatto che “due o più soggetti interagiscono fra loro prendendosi cura della loro relazione condivisa, dalla quale derivano dei benefici che essi non possono ottenere differentemente”. A produrre i beni relazionali sono soggetti relazionali, dotati di una riflessività relazionale. Le relazioni sono tanto più vere quanto meno sono strumentali, ossia tanto più ciò che sta a cuore ai soggetti è la relazione stessa, e il bene dell’altro. Il dono e la gratuità sono ciò che dà vita alle relazioni, mentre ciò che la uccide è vedere l’altro come un oggetto (ossia come qualcosa di cui disporre, che ha un prezzo). Ma la cultura contemporanea, sostiene Donati, è fondata sulla rimozione del dono, che è visto sempre con sospetto, o come una figura dell’impossibile. Infatti, in economia, ciò che è gratis è in realtà un acceleratore di vendite e, d’altronde, il pensiero giuridico non può concepire un diritto o un dovere alla gratuità.

La fiducia è il bene relazionale che genera tutti gli altri beni relazionali, e che può essere visto come capitale sociale. Ancor più, essa è contemporaneamente un prerequisito delle relazioni generative e un prodotto di esse, in grado pertanto di rigenerarle.

Secondo Donati i diritti umani sono una categoria specifica di beni relazionali.

La riflessività è per il sociologo una caratteristica individuale molto importante, ancor più in un mondo che cambia rapidamente (si parla di morfogenesi) e in cui i valori di riferimento e le relazioni continuano a mutare, anche grazie all’uso delle tecnologie. La riflessività specifica di cui oggi c’è urgente bisogno è quella relazionale (we-relation), che si caratterizza dall’aprirsi a vedere e a perseguire il bene (i beni) della relazione.

Il paradosso del pensiero di Donati, e direi il fascino che esso esercita, è dato dal fatto che secondo lui i beni relazionali, e le relazioni che li generano, quando funzionano bene, sono invisibili e non percepibili, mentre quando qualcosa di esse va storto allora è più facile che se ne avverta l’importanza, nasca la riflessione, e conseguentemente che ci sia una reazione per rimetterli al centro. Se ciò è vero a livello micro, ossia nella sfera delle relazioni private (in famiglia, tra amici), ciò è molto meno palese nelle organizzazioni intermedie, come associazioni, aziende, cooperative e ancor meno a livello macro dello Stato o delle organizzazioni internazionali. Per questo il pensiero di Donati è prezioso: come aiuto di consapevolezza a livello micro e stimolatore di una nuova e rivoluzionaria visione, tutta ancora da scrivere, a livello meso e macro.

Pierpaolo Donati

Scoprire i beni relazionali

Rubettino, 2019

L’armonia che nasce dai contrari

(di Giancarlo Polenghi)

Il saggio di Jacqueline Morineau, “La mediazione umanistica” (Erikson 2018) è un libro semplice, chiaro e potente. Frutto di oltre trent’anni di mediazione in ogni ambito, dal penale al civile, al familiare, il volume spiega che cosa è la mediazione umanistica e come funziona. Leggerlo dopo aver partecipato a 2 giorni di seminario con la stessa Morineau, che di questo metodo è l’ideatrice, è una condizione felice.

Il libro assomiglia alla sua autrice: una donna minuta, con lo sguardo vivo e una grande capacità di ascolto. Una personalità forte e armonica, riflessiva, tutt’altro che cerebrale, accogliente, immediata, gentile. Si vede subito che ciò che è scritto nel libro e insegna nei seminari, è ciò che vive. Il suo approccio alla mediazione punta a stimolare un nuovo sguardo sull’avvenire, ad aprire una porta sul futuro. Per fare questo offre spazio di ascolto al grido interiore che ogni conflitto porta con sé, il grido causato da ferite profonde. Questa fase della mediazione, che è la più lunga in termini di tempo, è denominata crisis e segue l’introduzione in cui i due medianti (ossia le parti in conflitto) illustrano il loro problema. Per aiutare i medianti a togliersi la maschera, ossia a dire la loro verità per intero, i mediatori (che agiscono sempre in gruppo, da 2 a 5) svolgono la funzione di specchio. Dicono quello che sentono, a livello emotivo, in modo graduale e accompagnando un percorso di approfondimento.  Per esempio a fronte di un racconto che parli di un conflitto estenuante si può dire: “Io sento: stanchezza”, e con questo piccolo aiuto esterno si può verificare se l’uno o l’altro, o entrambi, dicano di più e vadano più a fondo. I mediatori ascoltano, non giudicano, entrano in empatia con la sofferenza per permettere ad essa di uscire allo scoperto. L’ultima fase della mediazione consiste nel riconoscere un nuovo qui e ora che emerge dalla consapevolezza dei vissuti emersi. Se i medianti hanno davvero parlato e ascoltato può nascere un nuovo sguardo. Come la tragedia greca, la mediazione umanistica, si svolge in tre atti: introduzione, crisis, catarsi. Jacqueline Morineau sostiene che la mediazione umanistica è scavare dentro l’anima e che la cosa più importante in essa è il cammino che si può fare insieme. Infatti il cambiamento avviene sia tra i medianti che tra i mediatori, che imparano a conoscere meglio sé stessi. L’ambizione è saper entrare in contatto con il corpo, con l’anima e con lo spirito, in un viaggio di verità, bontà e bellezza. Una difficoltà per i mediatori è saper ascoltare in modo vero e profondo, senza giudicare e farsi condizionare dalle proprie categorie mentali e dal ragionamento. Gli studi pregressi in psicologia o sociologia o filosofia o legge possono essere un impedimento all’ascolto, e costituire una sorta di rumore assordante che impedisce di sentire. Jacqueline ha spesso fatto riferimento alla necessità di sentire con il cuore, tagliando la testa. Nella mediazione umanistica non c’è nulla da capire, ha detto, bisogna solo essere. In altre parole passare dalla rappresentazione alla relazione. Per questo essa non è una tecnica ma un cammino per un’umanizzazione reciproca.

Jacqueline Morineau. La mediazione umanistica.

Un altro sguardo sull’avvenire: dalla violenza alla pace.

Erikson Saggi Sociali, 2018