La cura dell’anima, ovvero non confondere mezzi e fini

(di Giancarlo Polenghi)

 

Ventisette pagine che si leggono in meno di un’ora. Sono la trascrizione rivisitata di una conferenza presso l’Accademia delle Scienze di Medicina Palliativa (Bologna) di Pierangelo Sequeri, famoso teologo, già preside della Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale e oggi direttore dell’Istituto sulla famiglia Giovanni Paolo II.

Il ragionamento parte dalla constatazione che “l’anima è diventata fragile, perché siamo smarriti nei confronti di qualcosa che fino a ieri andava da sé, viveva con noi nei percorsi … della relazione umana e ciascuno la coltivava nei modi che gli sembravano più opportuni”.

Il malessere dell’anima, secondo l’autore, diventa più intenso per chi è giovane (specialmente gli adolescenti) e per gli anziani, categorie deboli perché entrambe viste dal pensiero contemporaneo in maniera riduttiva rispetto alla loro natura. Agli adolescenti non si insegna più a crescere come persone, ma li si addestra ad espletare compiti, all’efficienza, e la senilità è inchiodata alla sopravvivenza, senza una consapevolezza e apertura sul congedo e la morte. I due luoghi un tempo della felicità, infanzia e vecchiaia, si sono trasformati in spazi malsani e scomodi. Ciò è avvenuto perché il fine dell’esistenza è sempre più l’autorealizzazione individuale e individualistica (i bambini e gli anziani, d’altronde, hanno massimamente bisogno degli altri).

L’errore, secondo Sequeri, è una duplice inversione tra mezzi e fini. La libertà come fine è distruttiva dell’umanità, perché ci condanna all’isolamento (mancanza di legami e relazioni, incapacità a decidere), mentre è essenziale poterla vivere come mezzo per qualcosaltro di bello e grande. In modo speculare, la pro-affezione (ossia ciò di cui l’anima vive come le relazioni, le soddisfazioni) deve riconquistare il ruolo di fine e non quello di mezzo. Il lavoro, per esempio, è una pro-affezione se vissuta come fine ossia se si persegue il piacere di fare qualcosa bene per sé stessa e per il bene che fa agli altri, e non come un semplice mezzo per ottenere del denaro o del prestigio. E le relazioni vere non devono essere strumentali, perché altrimenti si opacizzano. In altri termini ci sono ambiti di cui “godere gratuitamente e di cui essere fieri ed entusiasti al di là del puro vantaggio utilitaristico” e questi sono i fini che non tradiscono e danno la felicità. Per altro, si potrebbe aggiungere, citando uno studio di Joseph Piper (Otium e culto, Cantagalli), che anche il lavoro, che in definitiva è più un mezzo che un fine, dovrebbe essere orientato all’otium del latini, ossia alla contemplazione, all’apprendimento e alla conoscenza, all’arte e allo svago, alla gratuità molto più che alla produzione e all’efficienza monetizzabile.

Pierangelo Sequeri

La cura dell’anima

Asmepa Edizioni 2012