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Perché vale la pena conoscere Pavel Florenskij

(di Giancarlo Polenghi)

Un russo, visionario, matematico e fisico, ingegnere elettrotecnico, che ha fatto scoperte scientifiche lungo tutta la sua vita e registrato brevetti, sacerdote ortodosso, padre di cinque figli, filosofo della religione e teologo, studioso di estetica, simbologia e linguaggio.

Ha vissuto 55 anni, dal 1882 al 1937, di cui 5 passati in campo di concentramento, dove è stato fucilato dal regime sovietico. Pare che la sua morte sia avvenuta nel tentativo di salvare la vita ad altri suoi compagni di prigionia. Una sorta di libero sacrificio.

Il suo volto è magnetico: un ovale allungato, segnato dal naso diritto, uno sguardo attento e buono, i capelli lunghi, una rada barba. Esistono sue foto in cui veste la tonaca sacerdotale e la croce sul petto, ma anche alcune che lo ritraggono giocando con i suoi figli, o l’ultima del 1934, fatta nel campo di concentramento, tipica foto segnaletica di fronte e di profilo.

Posare lo sguardo su quest’uomo mette voglia di saperne di più. Anche perché è proprio lui a dire che lo sguardo è “somiglianza a Dio resa presente sul volto”. Tipica osservazione di Florenskij che sempre sapeva andare dal particolare e concreto, alle cause ultime, al senso definitivo che spiega tutto. In un’opera scrive: “ il corpo è simbolo dello spirito, è una manifestazione delle condizioni dello spirito (…) una condizione spirituale visibile dall’esterno”. Parole che sono molto simile a quelle impiegate anni dopo da San Giovanni Paolo II quando trattava della teologia del corpo.

C’è chi considera Florenskij un autore che propone teorie ascientifiche e poco sistematiche. Ma nessuno può negare che sia un pensatore originale e affascinante. Leggere le opere di Florenskij (12 libri che spaziano tra le più diverse discipline) può essere impegnativo, sia per la mole degli scritti che per il suo approccio rapsodico.

Alcuni consigliano di leggere le lettere che lui ha scritto dal gulag (Non dimenticatemi. Le lettere dal gulag del grande matematico, fisico e sacerdote russo, Mondadori 2006) perché in esse si trova il succo del suo pensiero.

A me è capitato di imbattermi in un saggio di Ivan Menara (Pavel Florenskij, Libertà e simbolo, 2016 Casa Editrice Il Margine) che ho trovato molto stimolante e che mi ha fatto nascere una profonda stima in padre Florenskij.

Menara, che da filosofo ha elaborato questo saggio di presentazione del pensiero di Florenskij, grazie anche alla collaborazione con Silvano Zucal (professore di filosofia teoretica e filosofia della religione a Trento), ci permette di apprendere in modo ordinato e sistematico il percorso intellettuale del nostro.

Ciò che colpisce subito è che il suo pensiero nasce dalla vita, ed è vitale. Florenskij con i suoi molteplici interessi cerca sempre il senso più profondo dell’insieme, è una sorta di urgenza esistenziale, che lo spinge prima verso la scienza e poi verso la religione e la teologia, pur senza mai abbandonare la scienza. La parola vita è cruciale per avvicianarsi a lui. Le altre due parole chiave sono libertà (l’intima essenza dell’uomo e di Dio) e simbolo, come dice il titolo del libro stesso.  E se dovessimo proporne una quarta questa sarebbe unità.

Florenskij nota che ci sono due tipi di rapporti con il mondo, quello interiore e quello esteriore, e due tipi di cultura, quella contemplativo-creativa e quella rapace-meccanica. Quest’ultima tende a possedere la realtà, ad oggettificarla, a dominarla, ma alla fine ci porta a distruggere la natura stessa e a passare da dominatori a dominati. L’ossessione per la pianificazione, la normalizzazione e il controllo sono fenomeni collegati. La conoscenza nasce dall’intuizione ma poi, per essere comunicata, deve passare dal ragionamento, dalla dimostrazione. Ciò è giusto e naturale, ma in quel tipo di processo si perde qualcosa di fondamentale: si perde il collegamento con il tutto, il senso più profondo. Ecco perché il simbolo (ossia un essere che è più di se stesso, una certa cosa che manifesta da sé ciò che non è e che si manifesta attraverso di esso) diventa un modo, anzi il modo, per trovare l’unità e anche la libertà.

La contemplazione è l’orizzonte della libertà perché vede con lo sguardo di Dio, con uno sguardo disinteressato e non sfruttatore. Questo è il linguaggio dell’arte, e la vita è un compito artistico. Il simbolo, che è un modo di vedere, non dimostra, non riduce, ma evoca, permette di essere costantemente rivisitato, non definisce. E non definire è importante di fronte a Dio che è infinito, e quindi indefinibile, ma anche di fronte alle persone, e al mistero del mondo e della natura. Il simbolo spia il mistero, lo avvicina senza svelarlo. Per lui la parola è simbolo, come lo sono i nomi e l’arte, quella sacra in particolare che ci mette in contatto con il divino.

Florenskij conosceva il pensiero di Solov’ev e ne fa tesoro in una sua sintesi originale. Sullo sfondo di tutto c’è una profonda fede cristiana, trinitaria. Florenskij è convinto che il primo passo per la conoscenza è un abbassamento, un’uscita da sé, un andare verso l’altro. “L’insistenza nel non uscire da sé stessi – scrive – è il peccato radicale, ossia la radice di tutti i peccati.”

La sua critica all’individualismo è molto serrata e, io credo, di grande attualità. Insomma la lettura della sua opera conferma quanto ebbe a scrivere poco prima di morire: “La mia più intima persuasione è questa: nulla si perde completamente, nulla svanisce, ma si custodisce in qualche tempo e in qualche luogo. Ciò che è immagine del bene e ha valore rimane, anche se noi cessiamo di percepirlo.”

 

Ivan Menara

Pavel Florenskij, Libertà e simbolo

2016 Casa Editrice Il Margine

Il disordine che viene

Mani in relazione … per imparare a volare

di Giancarlo Polenghi

Due anni fa ho cominciato a scrivere, con ritmo quindicinale, recensioni di libri per il sito dell’Accademia dei Ponti. Con il passare del tempo le recensioni sono diventate uno strumento, quasi una scusa, per mettere in rilievo un’idea, una scoperta relativa a quel periodo.

Forse qualcuno si prenderà la briga di leggere il libro consigliato, dicevo tra me e me, ma anche se così non fosse, no problem, perché la lettura della “recensione” dovrebbe comunque, mi auguro, trasmettere qualcosa di utile o interessante.

Tra l’altro molti dei libri segnalati fanno riferimento ad argomenti che ciclicamente sono riproposti, quasi in una ricerca concentrica che si prolunga nel tempo.

I temi, a partire dalla mia prospettiva, sono stati:

  • capire i tempi di frammentazione e individualismo che il mondo e la Chiesa stanno vivendo oggi;
  • il super tema della relazione (e della comunione), in chiave spirituale, sociologica o psicologica, che è poi un modo concreto per rispondere alla crisi odierna;
  • la lezione dell’Oriente cristiano, che pure, in chiave personalista e mistica, aiuta a reagire.

Con questa premessa, passo ora al libro, alquanto inusuale, che propongo oggi. Si tratta di un libro di fotografie (130 pagine 95 fotografie) che certamente ha a che fare con i primi due temi di cui sopra, e probabilmente anche con il terzo.

L’autore è Giovanni Padroni, (La bellezza della prossimità, Pacini editore 2019) che racconta per immagini la relazione tra gli ospiti di alcune delle otto case di cura della Fondazione Casa Cardinale Maffi (che nel gergo della Fondazione sono chiamati Fratelli Preziosi), e di chi si prende cura di loro. Le foto colgono la relazione, un rapporto che alimenta la vita e dà senso ad essa, pure in situazione di estrema fragilità, come è quella nella quale si trovano i Fratelli Preziosi. Il volume è stato presentato all’interno di un meeting dal titolo “Ti insegnerò a volare” (che è poi una canzone di Roberto Vecchioni), pure in linea con i concetti della relazione per la cura, e in cui si afferma che imparare a volare e insegnare a volare, sono la stessa cosa.

In un video di 4 minuti, con interviste realizzate a margine del meeting, si può mettere a fuoco il tema, attraverso le parole di Giovanni Benotto, Laura Brizzi, Virginio Colmegna e Stefano Perfetti (video).

Un altro video, pieno di gioia e dinamismo, dice la stessa cosa grazie all’interpretazione musicale e alle immagini filmate degli operatori e dei Fratelli Preziosi della Fondazione (video).

Giovanni Padroni

La bellezza della prossimità

Pacini editore, 2019

Dibattito. Tutti alla ricerca di veri maestri

La cura dell’anima, ovvero non confondere mezzi e fini

(di Giancarlo Polenghi)

 

Ventisette pagine che si leggono in meno di un’ora. Sono la trascrizione rivisitata di una conferenza presso l’Accademia delle Scienze di Medicina Palliativa (Bologna) di Pierangelo Sequeri, famoso teologo, già preside della Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale e oggi direttore dell’Istituto sulla famiglia Giovanni Paolo II.

Il ragionamento parte dalla constatazione che “l’anima è diventata fragile, perché siamo smarriti nei confronti di qualcosa che fino a ieri andava da sé, viveva con noi nei percorsi … della relazione umana e ciascuno la coltivava nei modi che gli sembravano più opportuni”.

Il malessere dell’anima, secondo l’autore, diventa più intenso per chi è giovane (specialmente gli adolescenti) e per gli anziani, categorie deboli perché entrambe viste dal pensiero contemporaneo in maniera riduttiva rispetto alla loro natura. Agli adolescenti non si insegna più a crescere come persone, ma li si addestra ad espletare compiti, all’efficienza, e la senilità è inchiodata alla sopravvivenza, senza una consapevolezza e apertura sul congedo e la morte. I due luoghi un tempo della felicità, infanzia e vecchiaia, si sono trasformati in spazi malsani e scomodi. Ciò è avvenuto perché il fine dell’esistenza è sempre più l’autorealizzazione individuale e individualistica (i bambini e gli anziani, d’altronde, hanno massimamente bisogno degli altri).

L’errore, secondo Sequeri, è una duplice inversione tra mezzi e fini. La libertà come fine è distruttiva dell’umanità, perché ci condanna all’isolamento (mancanza di legami e relazioni, incapacità a decidere), mentre è essenziale poterla vivere come mezzo per qualcosaltro di bello e grande. In modo speculare, la pro-affezione (ossia ciò di cui l’anima vive come le relazioni, le soddisfazioni) deve riconquistare il ruolo di fine e non quello di mezzo. Il lavoro, per esempio, è una pro-affezione se vissuta come fine ossia se si persegue il piacere di fare qualcosa bene per sé stessa e per il bene che fa agli altri, e non come un semplice mezzo per ottenere del denaro o del prestigio. E le relazioni vere non devono essere strumentali, perché altrimenti si opacizzano. In altri termini ci sono ambiti di cui “godere gratuitamente e di cui essere fieri ed entusiasti al di là del puro vantaggio utilitaristico” e questi sono i fini che non tradiscono e danno la felicità. Per altro, si potrebbe aggiungere, citando uno studio di Joseph Piper (Otium e culto, Cantagalli), che anche il lavoro, che in definitiva è più un mezzo che un fine, dovrebbe essere orientato all’otium del latini, ossia alla contemplazione, all’apprendimento e alla conoscenza, all’arte e allo svago, alla gratuità molto più che alla produzione e all’efficienza monetizzabile.

Pierangelo Sequeri

La cura dell’anima

Asmepa Edizioni 2012

Francia, morto Vincent Lambert Houellebecq: «Lo Stato è riuscito a ucciderlo, costava troppo»

Michel Houellebecq attacca il governo francese, e in particolare la ministra della Sanità Agnès Buzyn, per come è stato gestito il caso del 42enne ex infermiere morto il 11 luglio 2019 all’ospedale di Reims dopo essere rimasto tetraplegico e in stato vegetativo per quasi 11 anni.

Il fascino senza tempo della retorica

(di Giancarlo polenghi)

A tutti piacerebbe essere convincenti. Saper ottenere dagli altri quello che desideriamo, semplicemente dicendoglielo. Avere il potere di essere creduti, ancor più, di essere ritenuti saggi e giusti, capaci di infiammare gli animi o di tranquillizzarli, a seconda dei casi. Saper ispirare il prossimo, magari cominciando dai nostri cari, per passare poi ai colleghi e al mondo intero.

Come si fa a convincere gli altri?

Su questo tema, da sempre, si sono versati fiumi di inchiostro. Aristotele e Cicerone, per citare due famosi autori del passato, ma anche più recentemente gli studi della psicologia, della sociologia, della psicolinguistica, la disciplina della pragmatica, e della programmazione neurolinguistica (di gran moda tra i venditori), si sono occupati proprio di questo.

Il libro di cui ora consigliamo la lettura (Alberto Gil, L’arte di convincere, Edusc 2016) ha un’impostazione classica, lineare e ordinata, che non si limita a riproporre la dottrina degli antichi perché la sviluppa e l’approfondisce alla luce degli studi moderni soprattutto basati sul personalismo cristiano e sull’etica. L’idea di fondo è che la retorica, quella vera, è un’arte al servizio dell’uomo e della verità, molto diversa – antitetica – rispetto alla manipolazione che è in realtà una corruzione della retorica o un’antiretorica. Ciò che il testo offre è una potente sintesi, accessibile anche ai non specialisti, e dotata di una profondità rara in questo tipo di pubblicazioni. L’autore, che ha una formazione germanica come si evince dalla bibliografia (tra i più citati ci sono Romano Guardini e Joseph Piper), è abituato a insegnare la retorica, con retorica, ossia dimostrando il suo metodo mentre ne fa uso. Per Gil la retorica potrebbe essere rapprentata da un triangolo, ai cui vertici abbiamo il Logos (capacità argomentativa), il Pathos (la capacità di farsi ascoltare e di andare al cuore) e l’Ethos (la credibilità e l’autorevolezza che muove gli ascoltatori). Fin qui nulla di nuovo, ma all’interno del triangolo, come una potenza sorgiva da cui tutto dovrebbe scaturire, c’è ciò che lui chiama “l’orientamento al Tu”, ossia la capacità di ascolto e di dialogo nei confronti degli interlocutori. È qui che si vede la matrice cristiana del personalismo. L’orientamento al Tu obbliga il retore a rispettare l’interlocutore, a considerarlo soggetto, a lasciargli spazio perché possa giungere alle conclusioni. Per questo – sostiene sempre Gil – la virtù essenziale del retore è l’umiltà. Un’umiltà che implica prima di tutto il rispetto della realtà (a cui il pensiero deve volgersi “per comprendere” senza manipolarla ideologicamente), ma anche il rispetto dell’interlocutore, che è sempre dotato di sentimenti e di convinzioni. Insomma una lettura stimolante, non solo per avvocati o politici, ma per tutti coloro che a diverso titolo debbano parlare agli altri di qualsiasi tema o argomento.

Alberto Gil

L’arte di convincere

Edusc 2016 (disponibile anche in formato ebook)